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Se la donna non è degradata non c’è piacere

(IMPOTENZA PSICHICA)

Avanzerò l’ipotesi che l’impotenza psichica sia molto più diffusa di quanto non si creda e che, infatti, in una certa misura questo comportamento caratterizzi la vita amorosa dell’uomo civilizzato (…) gli uomini definiti psichicamente frigidi: costoro compiono sempre con successo l’atto sessuale, ma non ne ricavano alcun piacere particolare, e questo fatto è molto più comune di quanto si creda.

Due motivi dell’impotenza psichica: l’intensa fissazione incestuosa dell’infanzia e la frustrazione dovuta alla realtà nella adolescenza. Potrà sembrare non solo sgradevole ma anche paradossale, e purtuttavia si deve dire che per essere veramente liberi in amore si deve superare il rispetto per le donne e venire a patti con l’idea dell’incesto con la madre o con la sorella. Chi si sottoponesse a un serio esame di coscienza riguardo a questa esigenza, scoprirebbe certamente che considera l’atto sessuale fondamentalmente come qualcosa di degradante che insudicia e contamina non solo il corpo ma anche l’anima. L’origine di questa bassa opinione, che egli certamente non vorrà ammettere di possedere, va ricercata nel periodo della sua giovinezza durante la quale la corrente sensuale era già decisamente sviluppata ma il suo appagamento con un oggetto esterno alla famiglia era proibito quanto lo era con un oggetto incestuoso.

L’importanza psichica di un istinto aumenta in proporzione alla sua frustrazione.

I genitali in se stessi non hanno partecipato a quell’aspetto dello sviluppo umano riguardante la bellezza: sono rimasti animali e quindi anche l’amore è rimasto, nella sua essenza, animale come è sempre stato. Gli istinti erotici sono difficili da educare. La loro educazione a volte dà troppo, a volte troppo poco. Il modo in cui la civiltà cerca di trasformarli ha come prezzo una sensibile perdita di piacere, la persistenza degli impulsi inutilizzati può essere individuata nell’attività sessuale sotto forma di non-appagamento.

Potremmo, quindi, essere costretti a riconciliarci con l’idea che è assolutamente impossibile adeguare le esigenze dell’istinto sessuale a quelle della civiltà e che, in conseguenza del suo sviluppo, la razza umana non può evitare la rinuncia e la sofferenza nonché il pericolo di estinguersi in un lontanissimo futuro.

(DEGRADAZIONE DELL’OGGETTO SESSUALE)

Non appena si realizza la condizione di devalorizzazione psichica dell’oggetto sessuale, la sensualità può esprimersi liberamente e si possono sviluppare notevoli capacità sessuali e un alto grado di piacere.

Solo in una minoranza di persone le due correnti dell’affetto e della sensualità si sono perfettamente fuse; l’uomo sente quasi sempre che il suo rispetto per la donna agisce come una restrizione sulla propria attività sessuale, e sviluppa tutta la sua potenza solo quando si trova con un oggetto sessuale degradato e questo fatto è a sua volta determinato in parte dalla presenza di componenti perverse nelle mete sessuali, che non osa soddisfare con una donna che rispetta.

Ciò costituisce la fonte del suo bisogno di un oggetto sessuale degradato, di una donna eticamente inferiore, che non conoscendolo nelle sue altre relazioni sociali non può giudicarlo, ed a cui non deve attribuire scrupoli estetici.

(SUBLIMAZIONE)

L’incapacità dell’istinto sessuale di concedere una completa soddisfazione non appena accetta le prime richieste della civiltà diventa la fonte, tuttavia, delle più nobili conquiste culturali ottenute mediante una sublimazione sempre maggiore delle sue componenti istintuali. Infatti, quali motivi avrebbero gli uomini per adibire ad altri usi le forze istintive e sessuali se, mediante una loro distribuzione, potessero ottenere un piacere pienamente soddisfacente? Essi non abbandonerebbero mai quel piacere e non compirebbero più alcun progresso. Sembra, perciò, che l’inconciliabile differenza tra le esigenze dei due istinti – quello sessuale e quello egoistico – abbia reso gli uomini capaci di conquiste sempre maggiori, benchè soggetti, è vero, ad un costante pericolo al quale, sotto forma di nevrosi, oggi soccombono i più deboli.

(CIVILTA’ PRIMITIVE E PAURA DELLA DONNA)

 L’uomo primitivo è vittima di una perpetua disposizione all’angoscia…questa disponibilità all’angoscia si manifesta con maggiore forza in tutte le occasioni che differiscono in qualche modo dal normale, che implicano qualcosa di nuovo o inaspettato, qualcosa di non comprensibile o strano. Essa costituisce anche l’origine delle pratiche cerimoniali, estensivamente adottate nelle religioni più tarde, associate con l’inizio di ogni nuova impresa e di ogni nuovo periodo di tempo, i primordi della vita umana, animale e vegetale. I pericoli da cui l’uomo in angoscia si crede minacciato mai gli appaiono più vivi di quando si trova in una situazione pericolosa, e quella è per altro l’unica volta che ha senso proteggersi da esso. Nel matrimonio il primo rapporto sessuale può certamente esigere, in virtù della sua importanza, di essere preceduto da tali misure precauzionali (rituali, cerimonie, etc ndr)…

…(nelle civiltà primitive ndr) il rapporto con le donne è soggetto a restrizioni tanto solenni e numerose che abbiamo ogni ragione di dubitare sulla presunta libertà sessuale dei selvaggi….

L’uomo primitivo ovunque abbia eretto un tabù teme qualche pericolo e non c’è alcuni dubbio che in tutte queste regole volte a evitarlo si manifesti una paura generalizzata delle donneQuesta paura si basa forse sul fatto che la donna è diversa dall’uomo, sempre incomprensibile e misteriosa, strana e quindi apparentemente ostile. L’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di restare infetto dalla sua femminilità e quindi di apparire incapace.

Il coito, scaricando le tensioni e provocando flaccidità, produce l’effetto che può rappresentare il prototipo di quel che l’uomo teme, e il rendersi conto dell’influenza che la donna esercita su di lui mediante il rapporto sessuale, la stima che ottiene da lui, possono giustificare l’aumento di questa paura. In tutto ciò non v’è nulla di desueto, nulla che non sia ancora vivo anche tra noi.

Sulla tendenza universale alla devalorizzazione della vita amorosa,
Sigmund Freud, 1912

L’anticristo, Nietzsche

Questo libro è riservato a pochissimi. Forse nemmeno uno di essi è ancora nato.
Solo il postdomani mi si addice – C’è chi viene al mondo, postumo.
Le condizioni alle quali mi comprendono, e allora per forza comprendono – le conosco anche troppo bene.
Uno deve essere inflessibile fino alla durezza nelle cose dello spirito, per sopportare anche soltanto la mia serietà, la mia passione.
Uno dev’essere avvezzo a vivere sui monti – a vedere sotto di se il meschino ciarlare dell’epoca sulla politica e sull’egoismo dei popoli. Uno dev’essere divenuto indifferente, nè deve mai domandare se la verità serva, se per qualcuno essa diventi sorte ineluttabile…
Una predilezione della forza per domande di cui nessuno oggi ha il coraggio; il coraggio del proibito; la predisposizione al labirinto.
Una esperienza di sette solitudini. Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il lontanissimo. Una nuova coscienza per verità fin qui rimaste mute.
E volontà per l’economia in grande stile: conservare intatti la propria energia, il proprio entusiasmo…e rispetto di sè; l’amore di sè; l’incondizionata libertà verso se stessi…
Ebbene si! Questi soli sono i miei lettori, i miei lettori predestinati: che importa del resto? – il resto è solo l’umanità – All’umanità uno deve essere superiore per forza, per altezza d’animo – per disprezzo…

Prefazione de “L’anticristo”, Friedriche Nietzsche

La morale, il Principio di Realtà, il Super Io
Dobbiamo essere quel che dobbiamo-essere?

Pensiamo oggi, l’uomo contemporaneo.
Pensiamo ai miliardi di uomini nati vissuti morti nelle diverse latitudini ed epoche storiche.
Quanto dolore, quanta sofferenza e frustrazione, deriva dalla distanza tra l’essere e il dover-essere?
Tra il comportamento quotidiano e gli imperativi morali ai quali ci sentiamo di dover obbedire?
E poi – altro discorso – quanta violenza e cattiveria deriva da questa distanza, da questo dolore sofferenza frustrazione?

La violenza genera altra violenza. Stesso discorso vale per dolore sofferenza frustrazione. È un circolo vizioso, bagnato nel sangue e nell’odio.

Comunque, si diceva, la distanza tra essere e dover-essere.

Le nevrosi, per Freud, derivano tutte dal cattivo rapporto tra Super Io (l’imperativo morale) ed Es (l’istinto).
Nevrotico è quell’individuo il cui l’Io (entità mediatrice) non riesce ad equilibrare le istanze dell’Es e quelle del Super Io.

Ma Nietzsche – totalmente fuori dal consorzio civile – pone una questione che il “mondano” Freud non arriva ad indagare.

Queste imposizioni morali, da dove arrivano?
Che storia hanno?
Come si è formato, nei millenni di storia umana, il contenuto del nostro Super Io?

Ma soprattutto.
Sono giuste per l’uomo, queste imposizioni morali?
Sono coerenti con La Vita, ovvero favoriscono il percorso verso il pieno dispiegamento dell’Uomo in tutte le sue potenzialità?

Freud si limita a dire che La Società – tramite il principio di Realtà radicato nel Super Io – costringe necessariamente l’individuo a sacrificare una fetta di godimento (il Principio del Piacere radicato nell’Es) per garantire la sua sicurezza e la sua autoconservazione.
Ma non esprime nessun giudizio di valore sul contenuto, sulla sostanza, di questo Principio di Realtà.
Sulle imposizioni morali del Super Io.
Freud non arriva a tanto.

Invece questa è la battaglia principale di Nietzsche. Il giudizio di valore.
Dice Nietzsche.

Le imposizioni morali del nostro Super Io, frutto di millenni di cristianesimo, ebraismo e metafisica, sono la cosa più contronatura, antivitale e mortifera che esista.

Esse sono state plasmate da energie al tramonto, da gente prossima alla morte, che – per sopravvivere – potevano soltanto odiare ogni manifestazione della Pienezza di Vita.
E di questo odio hanno fatto un sistema, che si chiama ordine morale del mondo, metafisica, monoteismo metafisico, cristianesimo.

Per spiegare questo, egli chiama a giudizio tutta la storia umana.

Cos’era la religione, e cos’è diventata

La religione, prima della metafisica monoteistica e dall’ordine morale del mondo inventati dagli ebrei e perfezionata dal cristianesimo di Paolo di Tarso, era un modo per impiegare una sovrabbondanza di forza, di salute, di potenza.

Un popolo è talmente in salute, talmente ricco e pieno di vita, che crea un Dio o più Dei e destina loro una parte della sua sovrabbondanza di forze.

Un uomo nel pieno delle sue forze, così come un popolo – una umanità – nel pieno delle sue forze, non ha paura di guardare in faccia la realtà, il divenire, affrontare tutte le manifestazioni umane e naturali, farsi compenetrare dalla natura, dal cosmo e dall’umanità, racchiudere in sé le spinte all’essere, della sovrabbondanza di vita, ma anche la tensione verso l’annullamento – la coscienza della morte – essere tutto e il contrario di tutto.
(Questo era lo spirito della tragedia greca secondo La Nascita della Tragedia, il primo libro di Nietzsche. Non catarsi, non purificazione, non allontanare-il-dolore – come diceva Aristotele – bensì immergersi nell’estremo dolore e nell’estremo piacere, respirare e mordere tutta l’enormità della natura, del cosmo e dell’umanità).

Il Dio o gli Dei in questione non sono certo “buoni” come intendiamo oggi il concetto di buono.

Che bisogno c’è di “bontà”, infatti, se siamo vivi a tal punto, se siamo al culmine della nostra forza?

Essi – il Dio o gli Dei in questione – sono semplicemente umani.
Santificazione e celebrazione della straordinaria grandezza dell’Essere Umano.

Così sono gli Dei dell’antica Grecia, la Grecia presocratica – grandi contenitori di energie e significati di un popolo libero, esuberante, entusiasta, al culmine del proprio splendore.

Così è il Dio degli ebrei durante la loro Età dell’Oro.
Un Dio bastardo e arbitrario, terribile e sfaccettato, che racchiude dentro di sé tutto il “bene” e il “male” della natura, del mondo e dell’umanità.

La decadenza dei greci: la metafisica

Quando per i greci comincia la decadenza, inventano la metafisica. Socrate, Platone, Aristotele.
Inventano un “altro mondo”, frutto della nostalgia di quando erano al culmine della potenza, e lo chiamano Iperuranio, mondo delle idee.
Inventano e teorizzano La Perfezione. Una entità astratta, inesistente, di cui gli elementi della realtà sono soltanto ombre smunte, imitazioni imperfette.
I greci della decadenza spaccano il mondo in due.
Creano due “mondi”: uno che esiste, l’altro che non esiste.
Ma non finisce qui.
Essi, con la metafisica, rendono il mondo che non esiste più importante del mondo che esiste.
Questa follia è la prova della loro decadenza, del loro essere prossimi a soccombere.

La decadenza degli ebrei:
il monoteismo metafisico e l’ordine morale del mondo

Con la decadenza degli ebrei, il Dio degli ebrei comincia a cambiar fattezze. Da bastardo e arbitrario – frutto della sovrabbondanza di energia – diviene sempre più astratto e “spirituale”, sempre più “buono” e lontano del mondo.
Il capovolgimento folle della metafisica già operato dai greci, negli ebrei viene potenziato dall’utilizzo della Scrittura, delle Scritture.
Gli ebrei divengono allora il popolo della dittatura del Libro, della Legge Scritta che si impone come Guida e Assoluto Condizionamento della vita dei viventi
Viene così capovolto quello che fino ad allora è stato il rapporto tra Vita e Scrittura.

Ma chi ha scritto il Libro che diventa Guida e Assoluto Condizionamento per la vita dei viventi?
Un popolo in decadenza, che sta soccombendo, che teme la morte perché è prossimo alla morte.

Così la vita dei viventi viene Guidata e Assolutamente Condizionata dalle Scritture di un Libro scritto da moribondi.
I moribondi comandano, piano piano, secolo dopo secolo, sui vivi.

Succede così che gli ebrei cominciano ad attaccarsi alla loro mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza. Ne fanno – con sofisticati meccanismi intellettuali e soprattutto con la potenza dello strumento blasfemo della Scrittura – ne fanno l’unico modo legittimo di vivere.

Questo è il disastro dell’ordine morale del mondo. Il suo sacrilegio nei confronti della Vita.

Viene intessuta una fitta tela di dover-essere e imposizioni morali totalmente contronatura che soffocano ogni impulso vitale dell’uomo.
Viene legittimata in questo modo la mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza.
Vengono combattuti e osteggiati tutti gli istinti della vita traboccante – propria di una umanità al culmine della propria salute.

Ai discendenti dei discendenti dei discendenti degli ebrei – tramite l’ordine morale del mondo – vengono soffocate e mortificate tutte le più pure energie vitali. Queste divengono vergogna, peccato, senso di colpa.

In pratica, per conformarsi alla mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza di un popolo in declino, tutti i componenti di quel popolo – anche quelli più giovani e forti – sono costretti a diventare anch’essi mediocri, deboli, vecchi, malati e fiacchi.

Gli ebrei dell’ordine morale del mondo sono come i greci della metafisica.
Stanno per morire e non vogliono ammettere di star per morire.

Muoiono, ma restano in vita, impedendo così il corso naturale delle cose.
L’ordine morale del mondo, tenuto in piedi dalla Scrittura, è il loro accanimento terapeutico.

Gli ebrei pronunciano così la loro grande bestemmia.
Vanno contro natura.

Passata la fase della salute, secondo natura, c’è il tramonto, la vecchiaia, e poi la morte.
Secondo natura, un uomo – o un popolo, o una umanità – che sta per soccombere deve soccombere per fare spazio ad altro. Il ciclo vitale nascita-vita-distruzione è la regola di tutto. Di uomini, popoli, imperi, regole, usi e costumi. È la vita. È la realtà. È il mondo.

Con gli ebrei, succede che il moribondo non vuole morire. E non ha la forza – ovviamente – per rimettersi in sesto, tornare pienamente vivente. E quindi vuole sopravvivere, restare moribondo per l’eternità.

Fin qui tutto normale. Il problema è che gli ebrei ci riescono.

Sopravvivono in maniera miserevole, strisciando come vermi e impediscono ogni evoluzione, ogni ricambio.
Tutta la vita possibile, le energie, le evoluzioni future dell’uomo, le potenzialità, tutto viene soffocato per via di questi corpi morti che circolano ancora contronatura e dettano Legge.

Non c’è più spazio per il libero dispiegarsi di niente.
La realtà viene fissata dalle Scritture, dalla morale, dalla metafisica e dalla religione.
La realtà viene gestita secondo regole elaborate da gente morta che non si vuole togliere dai piedi.

Si nega il divenire, il tempo, la vita, la storia, la realtà.
Il presente e il futuro si cristallizza nelle Leggi dei Morti.

Ma fin qui, niente di troppo disastroso, a conti fatti.

Questa dinamica malata, perversa, blasfema, appartiene soltanto agli ebrei.
Così come la metafisica dei greci in decadenza probabilmente si sarebbe esaurita prima o poi, spazzata via da qualche forza vitale più forte.

Ma la sciagura più grande, quella che rende universale la malattia la perversità la blasfemia, è il cristianesimo di Paolo di Tarso, che contamina tutto il mondo allora conosciuto.

Il Dio in croce simbolo di

Il cristianesimo è l’evoluzione finale di questo tipo di ebraismo che-non-accetta-di-morire-e-lasciare-spazio-al-nuovo.

È lo stratagemma geniale e diabolico per permettere ad un un morto di continuare a sopravvivere trasformando gli altri vivi in morti.

Se il Dio – come è stato detto – è la rappresentazione di un popolo, di un’umanità, di un tipo d’uomo, allora il Dio dei cristiani svela la sua natura ad una prima occhiata.

Il Dio in croce, il dio che soffre, il dio moribondo e pieno di ferite.

Il cristianesimo è la religione di tutti coloro che soffrono, che sono sbagliati per questo mondo, che esprimono debolezza, fiacchezza, malattia.

Il cristianesimo legittima tutta la sofferenza e agisce sul resto del mondo con tutta la violenza, l’odio e il risentimento di cui è capace la vittima.

Il cristianesimo è la vittoria delle vittime sul resto del mondo.

Vittime che non hanno nemmeno la forza di cambiare, di migliorarsi, di fare qualcosa per non essere più vittime.

Vittime che restano vittime e ci fanno su una religione. E poi, con tutta la violenza, l’odio e il risentimento di cui sono capaci, vogliono che tutto l’umanità soffra come loro. Vogliono che tutta l’umanità diventi un’umanità di vittime.

La legittimazione della sofferenza, della debolezza, della malattia – iniziata col cristianesimo su scala mondiale – ha prodotto effetti disastrosi per l’umanità.

I sofferenti, i deboli e i malati non fanno più niente per non esserlo, e anzi non fanno altro che mettere i bastoni tra le ruote a chi non lo è.

Il cristianesimo condanna la salute, la sovrabbondanza di vita, l’esuberanza, l’energia, la potenza.

Tutto quello che è indizio di “vita piena” diventa peccato.

La compassione è lo stratagemma con cui colui che vive pienamente perde la sua Vita Piena per colpa di colui che non vive pienamente.

Il cristianesimo è un sistema di potere in cui il potere è esercitato dai compatiti.
Le armi di questo sistema di potere sono il peccato, la compassione, gli obblighi morali, il senso di colpa, la coscienza, il Super Io.

In questo modo – “muoia Sansone e tutti i filistei” – i morti perpetrano la loro esistenza mortifera facendo diventare tutti morti e perseguitando coloro che sono ancora vivi.

Questa cosa va avanti da duemila anni.

Come è possibile una cosa del genere?

Soprattutto, con la prima mossa “democratica” – numerica, quantitativa – della storia.

Paolo di Tarso – il sistematizzatore del cristianesimo (Gesù Cristo e cristianesimo sono due cose separate) – ha creato un sistema che è riuscito a chiamare alle armi tutti i sofferenti, gli sbagliati, i perdenti, i moribondi, i malati, i deboli, del mondo.

Paolo di Tarso ha creato un sistema che si basa sul risentimento e sull’odio – sulla faziosità esasperata, sui toni urlati e sulla guerra permanente.

Non c’è serenità intellettuale, nel cristianesimo di Paolo di Tarso. C’è solo furore.

In questo modo non ci sono ragioni che tengano. Si fa leva sugli umori peggiori, sull’invidia, sulla gelosia, sull’odio, sull’esasperazione, sul risentimento.

I cristiani agiscono sempre in uno stato di euforia – come ubriachi – e i martiri sono stati il suggello della loro vittoria folle e anti-intellettuale.

Se qualcuno muore per un’idea, quell’idea dev’essere senz’altro giusta. È un argomento fortissimo.

È nel sangue dei martiri, infatti, che è cresciuto e si è sviluppato il cristianesimo.

Poi la castità. E tutte le imposizioni arbitrarie dell’ordine morale del mondo – gli stenti e le privazioni, le sofferenze autoinflitte – che provocano repressione e violenza interiore, che in qualche modo si deve sfogare all’esterno.

E il furore sessuale attizzato dal corpo nudo di quel bel Cristo in croce e dalla bellezza velata, tutta da scoprire, della Vergine Maria.

E il richiamo irresistibile – per i perdenti – ad “un altro mondo” che sia migliore di quello che si vive ogni giorno,
e il richiamo al proprio dolore e alla propria sofferenza,
alla speranza che tutto può essere riscattato in quell’ “altro mondo”, dove tutto – a partire da me stesso – sarà più giusto.

La speranza! Che i greci hanno posto in fondo al vaso di Pandora, fonte di tutti i mali. La speranza! Il male peggiore!

Il cristianesimo è l’epidemia che ha devastato l’umanità per tutti i millenni successivi.
I bacilli sono stati allevati in laboratorio da Paolo di Tarso.

PS –  Sulla violenza

L’uomo – o un popolo, o una umanità – crea una morale quando sta per soccombere.

Perchè un uomo – o un popolo, o una umanità – al culmine della sua salute non ha nessun bisogno di morale, di dover-essere.
Egli trabocca, e le sue armi sono l’energia e l’intuito.
Egli scorre, asseconda il divenire, si dispiega con forti bracciate.
Segue naturalmente i suoi istinti vitali, dice sì alla vita, asseconda le energie che egli sente dentro di sé e percepisce dal mondo.

La violenza contro gli altri la usa solo è necessario.

Invece la morale, l’ordine morale del mondo, come si è detto, è stato lo stratagemma di un popolo per continuare miserevolmente a sopravvivere, a strisciare come un verme.

L’uomo – o il popolo, o l’umanità – non riesce a sentire più la vita che gli scorre tra le vene, non riesce a muoversi autonomamente, e quindi si affida ai dover-essere, alle Scritture, ad un Altro Mondo Che Non Esiste.

Ma i dover-essere sono stati elaborati da gente che ha in odio la Vita.

Le imposizioni morali vanno contro ciò che è Vita.

La violenza, quella vera, grave, viene da qua.

Ci sono due possibilità.

  1. La violenza che viene dai cattivi sentimenti dei deboli, dei sofferenti, dei malati. Di quelli che stanno per morire e non vogliono morire. E, per continuare a sopravvivere, non hanno scrupoli ad avvelenare tutto il resto.
  2. La violenza che viene dalla repressione degli istinti vitali. Dal dolore della compressione della propria libertà e della propria vita. Dall’essere costretti a giudicare i propri istinti migliori come fonte di vergogna, peccato e senso di colpa.

Questi due tipi di violenza sono prodotti da dinamiche contronatura.
E sono violenze esasperate, esagerate, spropositate.
Sono frutto della paura e del risentimento, sono frutto della debolezza e della malattia,
sono violenze ruminate, rimasticate, rimestate, torbide.
Sono queste le atrocità, le mostruosità, le crudeltà disumane.

L’umanità giusta, la “natura”, per Nietzsche, contiene pure violenza, ma in casi rarissimi. Si tratta comunque di una violenza leale, luminosa, cristallina.
Un gesto, un’azione.

Dice Nietzsche che, se agli spiriti sani e forti fosse permesso dispiegare liberamente la propria vita, la benevolenza verso i meno fortunati verrebbe spontanea. Sarebbe un’ulteriore dimostrazione della loro sovrabbondanza di energie.

La misericordia verso i più deboli, in un mondo in cui le differenze sono rispettate, secondo l’ideale antidemocratico di Nietzsche, è qualità insista nella natura delle anime nobili e superiori.
La cattiveria e la vera violenza, invece, quella subdola, viscida, subliminale, ma anche quella più distruttiva in assoluta – perchè priva di amor proprio – deriva invece dagli spiriti inferiori, rozzi, degradati, che non trovano altra via di uscita alla loro frustrazione e alla loro impotenza che quella di allargare tutte le ferite in cui si imbattono.

Alcuni brani

C’è una grande scala della crudeltà religiosa, con molti piuoli; ma tre di essi sono i più importanti. Un tempo si sacrificavano al proprio Dio esseri umani, e forse proprio quelli che si amavano di più – ne fanno parte i sacrifici dei primogeniti praticati in tutte le religioni preistoriche, anche il sacrificio dell’imperatore Tiberio nella grotta di Mitra dell’isola di Capri, il più orrendo di tutti gli anacronismi romani. Poi, nell’epoca morale dell’umanità, si sacrificarono al proprio Dio gli istinti più forti che si possedevano, la propria “natura”. 

Questa gioia di festa brilla nello sguardo crudele dell’asceta, l’uomo fanaticamente “contronaturale”. Infine: che cosa restava ancora da sacrificare? Non si doveva infine sacrificare tutto quanto vi è consolante, di sacro, di risanatore, ogni speranza, ogni fede in un’armonia nascosta, nelle beatitudini e giustizie future? Non si doveva sacrificare Dio stesso e, per crudeltà verso se stessi, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla – questo mistero paradossale dell’estrema crudeltà è stato riservato alla generazione che sta venendo su: noi tutti ne sappiamo già qualcosa. Ciò che fa meraviglia, nella religiosità degli antichi Greci, è la strabocchevole pienezza di gratitudine che ne prorompe: è un tipo d’uomo nobilissimo, quello che si pone così di fronte alla natura e alla vita! Più tardi, quando in Grecia la plebe prese il sopravvento, la paura lussureggiò anche nella religione: si andava preparando il cristianesimo. La fede cristiana è fin dal principio sacrificio: sacrificio di ogni libertà, di ogni orgoglio, di ogni consapevolezza di sè dello spirito; e contemporaneamente asservimento e dileggio di sè, automutilazione. C’è crudeltà e religiosità fenicia in questa fede che si pretende da una coscienza infrollita, multiforme e viziatissima; il suo presupposto è che la sottomissione dello spirito faccia indicibilmente male, che tutto il passato e ogni consuetudine di un tale spirito si oppongano a quell’absurdissimum sotto l’aspetto del quale la “fede” gli viene incontro. Gli uomini moderni, con la loro ottusità per ogni nomenclatura cristiana, non avvertono più l’orrore superlativo che si annidava per il gusto antico nel paradosso della formula “Dio in croce”. Finora non c’è stato mai e in nessun luogo una pari arditezza nel sovvertire, mai qualcosa di ugualmente terribile, interrogativo e problematico come questa formula. Essa prometteva il rovesciamento di tutti i valori antichi. Fu l’Oriente, il profondo Oriente, fu lo schiavo orientale, che in qualche modo si vendicò di Roma e della sua tolleranza aristocratica e frivola, del “cattolicesimo” romano della fede – e fu sempre non la fede, ma la libertà dalla fede, quella noncuranza semistoica e sorridente disinvoltura con la serietà della fede, a suscitare negli schiavi lo sdegno verso i propri padroni, la rivolta contro i loro padroni. Il “rischiaramento” suscita sdegno; lo schiavo cioè vuole cose assolute, capisce solo ciò che è tirannico, anche nella morale, ama come odia, senza sfumature, fino in fondo, fino al dolore, fino alla malattia; il suo molto dolore nascosto si ribella contro il gusto aristocratico che sembra negare il dolore.  Lo scetticismo verso il dolore, in fondo solo un atteggiamento della morale aristocratica, non ha contribuito per il meno all’origine dell’ultima grande sollevazione degli schiavi che è cominciata con la rivoluzione francese. Chi ha scrutato il mondo in profondità, capisce bene quale saggezza ci sia nel fatto che gli uomini siano superficiali. è il loro istinto di conservazione che insegna loro ad essere volubili, leggeri e falsi. Si trova qua e là un’appassionata ed esagerata adorazione delle “forme pure”, presso i filosofi come presso gli artisti: c’è da esser sicuri che chi in tal modo ha bisogno del culto della superficialità, ha fatto una qualche volta un tentativo infelice al di sotto di essa. Forse c’è addirittura per questi fanciulli bruciati, gli artisti nati, che trovano la gioia di vivere ancora e soltanto nell’intenzione di falsificarne l’immagine (come una prolungata vendetta contro la vita), anche un ordinamento gerarchico: si potrebbe desumere il grado di cui sono disgustati dalla vita dalla misura in cui desiderano vederne falsificata, assottigliata, trascendetizzata, divinizzata l’immagine – si potrebbero annoverare tra gli artisti anche gli hominem religiosi come il loro ordine più elevato, è la profonda, sospettosa paura di un pessimismo incurabile, che costringe interi millenni ad attaccarsi coi denti a un’interpretazione religiosa dell’esistenza: la paura di quell’istinto che intuisce che si potrebbe venire troppo presto in possesso della verità, prima che l’uomo sia diventato abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista…La religiosità, la “vita in Dio”, considerata da questo punto di vista apparirebbe allora l’ultimo e il più sottile parto della paura della verità, l’adorazione, l’ebbrezza dell’artista di fronte alla più coerente di tutte le falsificazioni, la volontà di capovolgere la verità, un volere la non-verità a ogni costo. Forse non c’è stato finora nessun mezzo più forte per abbellire l’uomo stesso che la religiosità appunto: grazie ad essa, l’uomo può diventare a tal punto arte, superficie, gioco di colori, bontà, che la sua vista non fa più soffrire. Si dà per l’uomo, come per ogni altra specie animale, un eccesso di esemplari malriusciti, malati, degenerati, cagionevoli, necessariamente sofferenti; i casi riusciti sono anche per l’uomo sempre l’eccezione e, pur considerando che l’uomo è  l’animale non ancora determinato, l’eccezione rara. Ma peggio ancora: quanto più alto è il tipo che è rappresentato da un certo essere umano, tanto più cresce l’improbabilità che costui riesce bene.
Il caso, la legge dell’assurdo in tutta l’economia dell’umanità si rivelano nel modo più spaventoso nei loro effetti distruttivi sugli uomini superiori, le cui condizioni di vita sono delicate, multiformii e difficili da calcolare. Ora, come si comportano le due suddette religioni maggiori (cristianesimo e buddhismo ndr) con questo sovrappiù di casi malriusciti? Cercano di conservare, di mantenere in vita ciò che in qualche modo si può conservare, anzi prendono partito per principio a suo favore, come religione dei sofferenti, danno ragione a tutti coloro che soffrono della vita come di una malattia e cercano di fare in modo che ogni altro sentimento della vita sia considerato falso e diventi impossibile (…)
In un calcolo globale le religioni che ci sono state finora, quelle cioè sovrane, sono state tra le sue cause principali del fatto che il tipo “uomo” sia stato  mantenuto su un gradino più basso – ed esse hanno conservato troppo di quel che sarebbe dovuto perire. (…)
Capovolgere
 tutti i giudizi di valore – ecco cosa dovettero fare! E spezzare i forti, ammorbare le grandi speranze, rendere sospetta la felicità nella bellezza, fiaccare ogni senso di sovranità, di virilità, di conquista, di avidità di potere, tutti gli istinti che sono propri del tipo “uomo” più alto e riuscito, trasformando tutto ciò in insicurezza, tormento di coscienza e autodistruzione, anzi tramutando tutto l’amore per ciò che è terrestre e per il dominio sulla terra in odio contro la terra e le cose terrene – questo si prefisse e si dovette prefiggere la Chiesa come suo compito, finchè nella sua valutazione, “smondanizzazione”, “desensualizzazione” e “uomo superiore” si fusero insieme in un solo sentimento.  (…)
Non sembra infatti che per diciotto secoli abbia dominato in Europa questa sola volontà di fare dell’uomo un sublime aborto? (…)


Al di là del bene e del male, Friedriche Nietzsche


Al cristiano la malattia è necessaria, pressappoco come alla grecità è necessaria un’esuberanza di salute
 – rendere malati è la vera intenzione recondita dell’intero sistema di procedure di salvezza della Chiesa (…
Il mondo interiore dell’uomo religioso assomiglia al mondo interiore dei sovraeccitati e degli esauriti; gli stati d’animo “altissimi” che il cristianesimo ha sospeso sull’umanità come valori di tutti i valori, sono forme epilettoidi – la Chiesa ha proclamato santi in majorem dei honorem solo mentecatti e grandi impostori.

A noi altri, a noi che abbiamo il 
coraggio della salute e anche del disprezzo, a noi è lecito disprezzare una religione che ha insegnato a fraintendere il corpo, che non vuole sbarazzarsi delle superstizioni dell’anima, che fa dell’insufficiente nutrizione un “merito”, che nella salute combatte una specie di nemico, di diavolo, di tentazione, che si è data ad intendere che si possa portare in giro un’ “anima perfetta” in un cadavere di corpo, ed ebbe bisogno di predisporsi, a tal fine, una nuova nozione della “perfezione”, un modo di essere esangue, malaticcio, fanatico-idiota, la cosiddetta “santità” – santità che null’altro è che una serie di sintomi di un corpo impoverito, snervato, inguaribilmente devastato!…Il movimento cristiano, in quanto movimento europeo, è sin dall’inizio un movimento collettivo di elementi di scarto e di rifiuto di ogni sorta: – essi, col cristianesimo, aspirano alla potenza.
Il cristianesimo non era “nazionale”, non era legato alla razza – si rivolgeva ad ogni sorta di diseredati della vita, aveva ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla base la rancune dei malati, ha indirizzato l’istinto 
contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è ben fatto, orgoglioso, esuberante, la bellezza innanzitutto, gli fa male agli occhi e alle orecchie.
Ancora una volta rimando all’ineffabile parola di Paolo: “Quel che è
 debole per il mondo, folle per il mondo, quel che per il mondo è ignobile e oggetto di disprezzo, Dio lo ha prescelto”.
Dio sulla croce – ancora non vi è chiara la spaventosa riserva mentale rappresentata da questo simbolo?
Il cristianesimo è stato fino a questo momento la più grande sciagura dell’umanità.
Poichè la malattia fa parte dell’essenza del cristianesimo, anche il tipico stato d’animo cristiano, la “fede”, deve essere una forma di malattia, tutte le vie diritte, leali, scientifiche alla conoscenza devono venir rifiutate dalla Chiesa come vie proibite. Già il dubbio è peccato…La completa mancanza di limpidezza psicologica nel prete – tradita dallo sguardo – è una manifestazione conseguente alla decadence – se si osservano le donne isteriche, o anche, per altro aspetto, i bambini di costituzione rachitica, si potrà notare con quanta regolarità la falsità istintiva, il gusto di mentire per mentire, l’incapacità di uno sguardo e di un passo diritto siano espressione di decadence.
“Fede” vuole dire non voler sapere ciò che è vero. Il pietista, il prete di ambo i sessi, è falso perchè è malato: il suo istinto esige che la verità non si affermi in alcun punto. “Ciò che è malato è buono; ciò che deriva dalla pienezza, dall’esuberanza, dalla potenza, è cattivo: così sente il credente”.
Le morti di martiri, sia detto per inciso, sono state nella storia una grande sciagura: esse seducevano. La conclusione di tutti gli idioti, ivi compresi femmine e popolo, che abbia importanza quella causa per la quale qualcuno affronta la morte (o che, come il primo cristianesimo, genera addirittura epidemie di desideri di morte – questa conclusione è divenuta un’indicibile remora per l’indagine, per lo spirito d’indagine e di prudenza. I martiri danneggiarono la verità…
Fa differenza per il valore di una causa il fatto che qualcuna per essa rinunci alla vita?…
Nella storia del mondo la stupidità di tutti i persecutori fu proprio questa: essi dettero alla causa avversaria l’apparenza di una rispettabilità – le donarono il fascino del martirio…Ancora oggi la femmina si inginocchia davanti ad un errore, perchè le hanno detto che per esso qualcuno morì sulla croce. La croce è dunque un argomento?
Sogni di sangue scrissero sulla via che percorrevano e la loro stoltezza insegnò che con il sangue si proverebbe la verità. Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena anche la più pura dottrina in delirio e odio dei cuori.
E quand’anche uno attraversasse il fuoco per la propria dottrina – che cosa dimostra ciò! Vero è piuttosto che dal proprio rogo viene la propria dottrina.
Il cristiano e l’anarchico: entrambi decadents, entrambi incapaci di agire altrimenti che disgregando, avvelenando, intristendo, succhiando sangue, entrambi istinto di odio mortale contro tutto ciò che consiste, che è imponente, che ha durata, che promette avvenire nella vita.
Il cristianesimo fu il vampiro dell’impero romano – nel giro di una notte esso ha disfatto l’immensa impresa dei Romani, di conquistare il terreno per una grande civiltà che ha durata. Ancora non è chiaro? L’impero romano che noi conosciamo…questa ammirevolissima opera d’arte di grande stile, era un inizio, la sua struttura era calcolata per misurarsi coi millenni...Quell’organizzazione era saldo quanto basta per sopportare cattivi imperatori: la casualità delle persone non può avere alcun peso in cose del genere – primo principio di ogni architettura. Essa non era però solida abbastanza per la più corrotta specie di corruzione, per il cristiano…Quest’occulto groviglio di vermi, che in mezzo a notte, nebbia e ambiguità si avvicinò furtivamente ad ogni individuo e da ognuno succhiò la serietà per le cose vere, l’istinto in genere per le realtà, quest’accozzaglia vile, effeminata e sdolcinata ha, passo su passo, estraniato le “anime” da quella costruzione immensa – quelle nature preziose, virilmente nobili, che nella causa di Roma ravvisavano la propria causa, la propria serietà, il proprio orgoglio. La furtività dei bigotti, la clandestinità da conventicola, torbidi concetti come inferno, come sacrificio dell’innocente, come unio mystica nel bere sangue; soprattutto il fuoco, lentamente attizzato, della vendetta, della vendetta dei Ciandala – questo signoreggiò Roma.


L’anticristo, Friedrich Nietzsche

Tutto è costruito

Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante.

E ho pensato: “Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa “.

«Io» dice la montagna «sono montagna e non mi muovo.» Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani. E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti? Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe più in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?

Tu montagna. sei tanto più grande dell’uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l’uomo è una bestiolina piccola, sì, che ha però in sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata più fina.
Vide allora l’albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere più comodamente. E poi sentì che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottì; scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestì il legno di cuoio e tra il cuoio e il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato. […]

Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città.

La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Sí ma se mi sapeste dire dov’è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua?

[…] Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sí, da un mondocostruito : case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia.

[…]Ecco: sdraiato, voi buttate all’aria il cappellaccio di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:

«Oh ambizioni degli uomini!» Già. Per esempio, che grida di vittoria perché l’uomo, come quel vostro cappellaccio, s’è messo a volare, a far l’uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L’avete visto? La facilità piú schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioia. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s’arresta; addio uccellino!

«Uomo,» dite voi, sdraiati qua sull’erba, «lascia di volare! Perché vuoi volare? E quando hai volato?» Bravi. Lo dite qua, per ora, questo; perché siete in campagna, sdraiati sull’erba.

[…] Alzatevi, rientrate in città e, appena rientrati, lo intenderete subito perché l’uomo voglia volare. Qua, cari miei, avete veduto l’uccellino vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzioneun altro mondo nel mondo: mondo mani fatturato, combinato, congegnato; mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice.

[…]Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!

Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città!

Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli.

Ci vorrebbe un po’ piú d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti… Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione.Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando vuole, paziente.

Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche sé stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.

[…] Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa?

La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.

Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà.

E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.

Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate soprese.

Ma che belle costruzioni vengono fuori![…]

Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio, proprio e particolare, per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni di derivazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.

Ed ecco intanto, che me n’era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.

Uno, nessuno e centomila, Luigi Pirandello, 1926

Appunti base-base: la civiltà peccato originale dell’uomo

In principio l’uomo impiegava tutto il giorno a cacciare e raccogliere frutti e piante selvatiche. Non c’era tempo per niente che non fosse il lavoro (di caccia e raccolta) necessario per la sussistenza alimentare. Non c’era tempo neanche per il potere e il comando – D’altronde, chi comandi? Comandi di fare cosa? La “società” era naturalmente egualitaria

Poi, tramite la prima invenzione tecnologica: l’agricoltura, l’uomo cominciò a controllare i frutti e le piante che il terreno produceva. Poi con le innovazioni tecnologiche nell’agricoltura, tipo l’aratro, la sua efficacia venne incrementata a dismisura.

Con due effetti:

1) L’uomo ebbe a disposizione più tempo.

2) L’uomo cominciò a produrre un surplus di prodotti della terra. Una quantità di derrate alimentari che dovevano essere conservate e gestite.

Nei villaggi infatti si crearono gruppi di persone che non lavorava la terra ma si occupava di conservare e gestire il surplus di produzione. Il surplus di tempo venne interamente concesso a questo gruppo di persone per permettere loro di gestire il surplus di produzione.

Questi, a tutti gli effetti, si occupavano di “amministrazione” , e gettarono le basi per un modo più “mentale” e meno “fisico” di lavorare e vivere. Ad esempio, appunto per motivi di amministrazione, inventarono la scrittura, con cui riuscivano a gestire e fissare su una superficie durevole quantità prima impensabili di informazioni.

Questi amministratori, che gestivano il prodotto del lavoro di chi lavorava la terra, e che dunque dipendevano materialmente da essi, man mano assunsero un ruolo privilegiato all’interno della comunità. Forse per il tipo di lavoro, meno sfiancante, forse per la quantità di tempo a disposizione, che permise loro di muoversi in modo strategico sul tavolo di gioco del potere, questa classe di amministratori diventò presto la classe dirigente della comunità.

Una classe che, generazione dopo generazione, adottò uno stile di vita migliore rispetto al resto della comunità. Perché, in virtù della loro attività di “amministratori”, avevano accesso a grandi quantità di derrate alimentari, e quindi poterono usufruire di una parte più consistente di queste.

Una classe che possedeva inoltre l’arma della scrittura, uno strumento “magico” e immediatamente “trascendentale”, che portava la parola al di fuori del tempo e della realtà materiale del lavoro nei campi.

Con la scrittura, per via del suo carattere “oltreumano”, era più facile stabilire cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Essa fu alla base dell’istituzionalizzazione della legge e della religione.

Un brano da “Gesù lava più bianco, ovvero Come la Chiesa inventò il marketing”, 2014, Bruno Ballardini, Minimum Fax:

“Oggi, in piena civiltà della scrittura stentiamo a comprendere come potesse essere vissuta la scrittura a quell’epoca (origini del cristianesimo, predicazione di Paolo di Tarso ndr). Scrive Walter j. Ong: ” La scrittura ha trasformato la mente umana più di qualunque altra invenzione. Essa crea ciò che è stato definito un “linguaggio decontestualizzato” o una forma di comunicazione verbale “autonoma”, vale a dire un tipo di discorso che, a differenza di quello orale, non può essere discusso con il suo autore, poichè ha perso il contatto con esso. Le culture orali conoscono un tipo di discorso autonomo che utilizzano in forme rituali fisse, ad esempio nei vaticini o nelle profezie: chi gli dà la voce è considerato solo un tramite e non la fonte. L’Oracolo di Delfi non aveva responsabilità su quello che diceva, poichè i suoi responsi venivano percepiti come la voce di Dio. La scrittura, e ancora di più la stampa, hanno in sè qualcosa di questa facoltà oracolare. Come il vate o il profeta, il libro trasmette un messaggio derivante da una fonte, rappresentata da chi ha effettivamente “parlato” o scritto il libro. L’autore potrebbe essere sfidato se fosse raggiungibile, ma di fatto egli non può essere raggiunto in nessun libro. Non esistono modi diretti di confutare un testo. Anche dopo una confutazione totale e distruttrice, esso dirà ancora esattamente le stesse cose di prima. Questo è uno dei motivi per cui l’espressione il libro dice ha assunto popolarmente lo stesso significato di è vero“. Anticamente i messaggi che si materializzavano dai segni scolpiti sulla pietra nella mente di chi li leggeva riempivano di stupore gli animi delle persone semplici, e gli scribi che operavano questo prodigio erano visti come depositari di straordinari poteri magici poichè erano in grado di far parlare le pietre”.

Legge e religione che, proprio per il loro rapporto con la scrittura, e dunque con l’amministrazione del surplus, furono fin dall’inizio di supporto alla neonata classe dirigente. La loro arma di legittimazione.

Luoghi del potere – quel “potere” che prima non esisteva – diventarono il deposito, il tribunale e il tempio.

Tutto ciò è stato reso possibile dalle innovazioni tecnologiche che portarono al surplus di tempo e produzione.

Ciò portò alla stratificazione sociale e alla gerarchizzazione della società. Ma più del 90% della popolazione restava a lavorare la terra. La civiltà è una ingiustizia di pochissimi portata avanti nei confronti di moltissimi. È il peccato originale.