Mese: dicembre 2012

Poe e le donne

I ricordi dei miei primissimi anni sono legati a quella stanza e ai suoi libri, di cui non dirò nient’altro…
In tale stanza sono nato. Ridestandomi così dalla lunga notte di ciò che sembrava, ma non era, il non essere,  per giungere, d’un ratto, nella terra stessa della fiaba, in un palazzo della fantasia, negli strani domini del pensiero e dell’erudizione monastica, non è affatto singolare che mi guardassi intorno con occhi ardenti e stupiti, che seppellissi la mia fanciullezza nei libri, e dissipassi la mia gioventù nella fantasticheria; singolare davvero è, invece, mentre gli anni fuggivano e il meriggio della virilità mi trovava ancora nel maniero dei miei avi, sorprendente è davvero l’arresto che colpì le sorgenti della mia vità, stupefacente la completa inversione che si operò nel corso dei miei più semplici pensieri.
Le realtà del mondo mi giungevano come visioni, e soltanto come visioni, mentre le folli idee della terra dei sogni divenivano, in cambio, non solo l’elemento della mia vita quotidiana, ma, realmente, la mia sola e intera esistenza.

Edgar Allan Poe, Benerice

Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro.
Io per lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati.
Quanti beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi!
Chi pose mai nel numero dei beni umani l’avere un poco di terra che ti sostenga? Niuno, eccetto i navigatori, e massimamente noi, che per la molta incertezza del successo di questo viaggio, non abbiamo maggior desiderio che della vista di un cantuccio di terra; questo è il primo pensiero che ci si fa innanzi allo svegliarci, con questo ci addormentiamo; e se pure una volta ci verrà scoperta da lontano la cima di un monte o di una foresta, o cosa tale, non capiremo in noi stessi dalla contentezza; e presa terra, solamente a pensare di ritrovarci in sullo stabile, e di potere andare qua e là camminando a nostro talento, ci parrà per più giorni essere beati.

Giacomo Leopardi,
Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez
(Operette Morali)

I

Fragili, scricchiolanti, pronte a spezzarsi.
Malate, rosicchiate dal morbo, sempre a cavallo tra esistenza e non-esistenza.

Sono le donne di Edgar Allan Poe.

Elizabeth Arnold Hopkins Poe, sua madre, che morì quando lui aveva due anni.
La madre adottiva Maria Allan, che morì quando lui ne aveva venti.

Virginia Clemm, la sua cugina tredicenne, che Poe sposò quand’era già avanti con gli anni, candida e delicata, la summa della femminilità del garbo e della misura, che proprio davanti a lui ebbe il suo primo attacco di tubercolosi. Il morbo che se la porterà via lentamente, ferocemente.

Un fiotto di sangue nero dalla bocca, su quella faccia pallida. Il caldo schifo della realtà sulla fredda superfice dell’illusione.

Benerice, Morella, Eleonora, Ligeia. Tutte le donne dei suoi racconti. Donne che immancabilmente si ammalano e muoiono, disperdono i loro ultimi soffi di vita nel gelo più assoluto di un raziocinio ossessivo che nonriesceaspiegarenonriesceaspiegare, vengono inesorabilmente rosicchiate dal morbo, scricchiolano sotto il peso dell’esistenza, crollano disfacendosi in una morte prematura.

E l’Amore di Poe, che più trova malattia e morte e più si ingigantisce, prolifera e si alimenta, assume le tinte nere e vermiglie dell’ossessione, assume i contorni dell’impresa epica – Amore senza se e senza ma – proprio a contatto con la malattia e la morte. Tanto che a volte sembra che ami più la caducità della vita che la vita stessa.

II

In “Morella” la cosa è esplicita, buttata lì senza vergogna, ed elaborata narrativamente in modo a dir poco geniale. Morella ha un’erudizione spaventosa ed è ossessionata dai “temi proibiti” e dal mistero dell’Identità. Il marito, all’inizio adorante, comincia presto a provare per lei un fastidio che assomiglia all’odio.

Ma era ormai venuto il tempo in cui il mistero dell’atteggiamento di mia moglie mi opprimeva come un sortilegio: non riuscivo piu’ a sopportare il tocco delle sue esili dita ne’ il tono sommesso della sua musicale favella ne’ lo sfavillio dei suoi occhi malinconici.

Quando Morella si ammala, il marito comincia ad attendere ardentemente la sua morte.

Dovro’ dunque dire che attendevo con un desiderio ansioso, divorante, il momento del trapasso di Morella? Eppure e’ vero, ma il fragile spirito si avviticchiò al suo abitacolo di creta per molti giorni, per molte settimane e tediosi mesi sino a che i miei nervi tormentati ottennero il dominio della mia mente e il ritardo mi infuriò e con cuore demoniaco maledissi i giorni, le ore, gli amari momenti che sembravano allungarsi senza fine mentre la sua dolce vita declinava cosi’ come si allungano le ombre nello smorire del giorno.

Sul punto di morte, Morella pronuncia le parole fatidiche.

– Questo è il giorno dei giorni- mi disse [..] – Sto per moriree tuttavia vivro’.
– Morella!
– Non sono mai venuti i giorni in cui tu mi avresti potuto amare, ma colei che in vita hai aborrito in morte adorerai.

E partorisce una bambina che presto diventerà la sua copia perfetta, vera e proprio incarnazionemetaforica dell’Amore Possibile diventato Amore Impossibile.

La sua creatura alla quale nel morire aveva dato luce e che non respirò se non quando la madre ebbe cessato di respirare, la sua creatura, una bambina, visse. E questa crebbe stranamente di statura e d’intelletto ed  era l’immagine perfetta di colei che era scomparsa, e io l’amai di un amore tanto fervido quale non credo possa essere sentito da un altro abitante di questo pianeta.

III

In Poe troviamo una rappresentazione estrema/distorta/allucinata di un qualcosa che è presente in tutte le dinamiche umane.

La predilizione ad amare ciò che è svanito, o sta per svanire.

E ciò significa: amare ciò che non esiste e non esisterà. E spesso – la mente umana è l’anticamera dell’inferno – ciò che non è mai esistito.

Al di là di ogni apparenza, i vantaggi sono molteplici.

In questo modo non si prova quasi un senso di potenza?
Uno struggimento puro, estremo, che fa sentire inattaccabili su tutti i fronti?
Un dolore che fa stare perfino bene?

Un sentimento che – cosa più interessante – lava la coscienza e – una volta ogni tanto – è immune da sensi di colpa?

L’amore e l’identità in pericolo

Nel desiderio dell’altro è segretamente custodita la possibilità per il mio corpo di trascendersi. Allora, e solo allora, il corpo si fa carne, ma non con la freddezza  di chi si sta appropriando della carne dell’altro, bensì con l’esitazione di chi sente la sua identità in pericolo. Se trascendersi è valicare la propria solitudine, non mi è dato di sapere cosa sarò nella carne dell’altro, ma certamente non sarò più ciò che sono. La mia identità in pericolo rende il mio corpo esitante, maldestro, insicuro, non per imperizia, ma per la vertigine che accompagna la scoperta di quegli aspetti di me che solo l’altro può svelarmi.

Umberto Galimberti, “I vizi capitali e i nuovi vizi”, 2003

Le donne, le femmine, sono più potenti dei maschi, ma cercano un maschio che sia più potente di loro.
Eppure non riescono a togliersi forza, anzi, più ci provano, più ne acquistano.
Una donna per avere fiducia nell’uomo deve essere vinta, presa.
La dolcezza di un amore ha la temperatura dei vulcani, il resto è leccarsi, male, le ferite.
Il resto è malattia, la febbre di un figlio che implora l’amore della madre.
Un uomo per amare una donna deve avere il coraggio di vincerla!

Un uomo e una donna sono della stessa specie ma il loro corteggiamento è molto più complesso di quanto si pensi.
È un misto tra i pianeti, gli animali e i fiori.
Si tollera troppo la paura, e non si scende più in guerra.
Ma l’amore ha nella sua dolcezza una violenza insopportabile, come insopportabile è un cuore che ama o un corpo che veramente si apre a un altro corpo.
L’uomo è un’evoluzione complessa, che non si esaurisce in un atto fisico e bestiale e neppure in una regola di attrazione o repulsione scientifica.
Siamo il risultato di una storia di errori e di orrori: immaginarsi l’amore come un pacifico bacetto, tutto rosa e confettino, è da stupidi.
L’amore ha il sapore dei veleni e degli acidi e non potrebbe essere altrimenti.

Ma quale povera mente ci ha inculcato che il colore dell’amore è il rosa?…
L’amore non è così.
La dolcezza non è così, è un sentimento straziante che stravolge da dentro l’anima e spazza via in un silenzio di dolce catastrofe.
Ti accarezza un uragano di bellezza, ma è sempre la carezza di una tempesta.
L’essere umano, accettiamolo, è piccolo di fronte alle emozioni.
Non c’è niente da fare.
E l’amore è la massima emozione che contiene tutto.

…Stanotte mi sono graffiata di rabbia la bocca ripensando alla dolcezza dei suoi baci, talmente dolci da ferirmi come piccole spine di bellezza che brucia….

Se la nostra storia non fosse impossibile, non potrei rivederti una sola volta ancora.
…E quando mi entrerai dentro io piangerò fino a sentirmi sconfitta in una vittoria, ma non mi fermerò mai di chiederti ancora.

Finalmente vinta dall’ingiustizia di non poterti accogliere tutto dentro di me.
Ma questo limite sarà la benedizione, e piangeremo insieme, amore, insieme.

“E lasciamole cadere queste stelle”, Filippo Timi, 2007