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Sacro, ragione e tecnica secondo Galimberti

[…] La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi: alcuni di essi arrivano persino a prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale è venuta a delineandosi sotto l’influsso di determinate religioni e di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si deve partire. Non vogliono imparare che l’uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta. […] Ora, tutto l’essenziale del progredire umano è avvenuto in tempi remoti, molto precedenti a quei quattromila anni che noi approsimativamente conosciamo e nei quali l’uomo non può essersi cambiato di molto. Ma il filosofo vede nell’uomo attuale “istinti”, e presume che questi facciano parte dei fatti immutabili dell’uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l’intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell’uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. […]

Friedrich Wilheim Nietzsche, Umano, troppo umano,
libro primo, parte prima, af. 2,
Newton Compton, 2010, pp. 33

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Woody Allen, l’ideologia psicanalitica e le malattie dell’abbondanza

Woody Allen conosce personalmente l’angoscia della morte e dell’assurdo, il sentimento della colpa, la paura di essere andati fuori strada e di aver fallito nella propria vita; ed è convinto, in ogni caso, che un’opera artistica o letteraria che manchi di affrontare le grandi “questioni esistenziali” – secondo lui “le uniche veramente degne di interesse” – sarebbe un’opera mutilata a cui mancherebbe una dimensione. (…)

Il gusto di mescolare la finezza psicologica e lo humor è comunque un tratto d’epoca: il ricorso all’autoderisione permette oggi a molti membri delle società liberali avanzate tanto di esprimere la preoccupazione ossessiva che hanno di se stessi, quanto di beffarsene, perchè per quanto siano narcisisti, sanno bene che in fondo i loto problemi psicologici sono un lusso da privilegiati, e che hanno comunque la possibilità di vivere nella loro prospera e pacifica civiltà.
Per questo motivo i film di Allen non possono che essere considerati insieme all’epoca che descrivono, dato anche che uno dei loro principali interessi è proprio quello di offrirci un riflesso della grande svolta individualistica prodottasi nelle società sviluppate intorno al terzo quarto del XX secolo.
I personaggi contemporanei di cui Allen analizza finemente fantasmi, frustrazioni e ossessioni hanno una psicologia assai differente rispetto a quella dei loro genitori e dei loro nonni, in quanto vivono in un quadro materiale e culturale che non ha un granchè a che vedere con il loro. Conosciamo , ad esempio, quello dei genitori di Allen, modesti ebrei di Brooklin, evocati in Radio Days (1987): condizioni di vita difficili che impongono abitudini di austerità e di economia; un lavoro, spesso duro e faticoso, appena sufficiente a sbarcare il lunario; la presenza rassicurante e soffocante insieme dell’ambiente familiare e del gruppo sociale, che fanno sentire la loro legge sui singoli; una consolidata valorizzazione della tradizione, della rispettabilità sociale e dei buoni costumi; una morale del lavoro e del rispetto ella legge che non riconosce nessuna leggittimità alla ricerca del piacere; un basso livello culturale congiunto ad una sostanziale sfiducia verso i discorsi troppo audaci, troppo “intellettuali” e “corrosivi”: “I valori dei miei genitori sono Dio e la moquette”, afferma Allen in uno sketch (…).
Quarant’anni più tardi le cose sono profondamente cambiate: il livello di vita si è notevolmente elevato, il consumo si è banalizzato, si è assunta l’abitudine del comfort e del tempo libero, dello sport, dei ristoranti, degli spettacoli e dei viaggi, e nonostante l’insicurezza regni sovrana nel mercato del lavoro, nessuno di coloro che nei film di Allen si danno da fare per trovare un impiego teme davvero la miseria. (…)
Le loro preoccupazioni sono fondamentalmente individualistiche. Lo scopo che questi personaggi si danno nella vita non è più quello di inserirsi nell’ordine sociale tradizionale, di conservare il loro ruolo nel gruppo e di farsi apprezzare per la loro passione nel lavoro e per il loro senso morale, e non è neanche, al contrario, quello di edificare una società più giusta: è semplicemente di arrivare a crescere e realizzarsi individualmente (…)
Essi aspirano a vivere una vita sessuale e amorosa gratificante. Il sesso, di cui secondo Allen nessuno parlava nella sua famiglia, e che quasi non si praticava più, è oramai completamente scolpevolizzato e riconosciuto come una delle fonti di felicità più evidenti e naturali, al punto di essere divenuto un’ossessione esplicita e da essere commentato senza falsi pudori: i personaggi alleniani si complimentano ben volentieri per le loro performances a letto, o altrimenti si scusano delle loro eventuali dèfaillances; le loro battute sono spesso crude: “Il sesso è sudicio? Solo quando è ben fatto”. (…)
Questa preoccupazione ossessiva di sé che caratterizza l’individuo contemporaneo sotto alcuni aspetti è spia del sentimento che la felicità terrena, a lungo creduta inaccessibile, appare ormai possibile in una società in cui il livello di prosperità e libertà non ha eguali nella storia.
Ma ciò genera anche delle nuove inquietudini e delle nuove malattie: innanzitutto perchè nella corsa alla realizzazione è impossibile che ci siano solo vincitori, e sono in tanti a restare bloccati, frustrati da quelle soddisfazioni di cui sembra che i loro simili siano colmi, con la sensazione, talvolta, di essere dei semplici falliti, inutili e senza valore.
Lo scarto tra l’aspirazione a una felicità che sembra essere divenuta un diritto e una realtà spesso deludente accresce perciò l’insoddisfazione e le tendenze depressive.

La filosofia di Woody Allen”, Roland Quilliot, 2011

La grande popolarità della psicanalisi in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti, fin dagli inizi degli anni trenta ha indubbiamente la stessa base sociale. Ecco una borghesia per la quale la vita ha perso significato. Non hanno nessun ideale politico o religioso, eppure sono in cerca di un significato, di un’idea alla quale dedicarsi, di una spiegazione della vita che non richieda fede o sacrifici (…)

Si deve notare che in principio, dal 1900 agli anni venti, la psicoanalisi era molto più radicale di quanto non lo sia diventata dopo aver ottenuto la sua grande popolarità. Per la borghesia cresciuta nell’età vittoriana, le affermazioni di Freud sulla sessualità infantile, sugli effetti patologici della repressione sessuale etc, erano violazioni radicali dei loro tabù, e ci voleva coraggio e indipendenza per violarli. Ma trent’anni più tardi, quando gli anni venti portarono con sé un’ondata di erotismo e un diffuso abbandono degli standard vittoriani, le stesse teorie non erano più traumatizzanti o provocatorie. Così la teoria psicanalitica ottene l’acclamazione popolare in tutti quei settori della società che erano avversi all’autentico radicalismo, cioè all’andare “alle radici”, pur essendo desiderosi di criticare e trasgredire le consuetudini conservatrici del diciannovesimo secolo. In questi circoli – vale a dire, tra i liberali – la psicoanalisi espresse la desiderabile via di mezzo tra i li radicalismo umanistico e il corservatorismo vittoriano.
La psicoanalisi divenne la soddisfazione surrogatoria d’una profonda aspirazione umana, quella di trovare un significato per la vita, di essere autenticamente a contatto con la realtà, di eliminare le distorsioni e le proiezioni che pongono un velo tra realtà e noi stessi. Essa divenne un surrogato della religion per la media e alta borghesia che non desiderava fare uno sforzo più radicale e comprensivo.
Qui, nel Movimento Psicanalitico, trovarono tutto: un dogma, un rituale, un capo, una gerarchia, la sensazione di possedere la verità, di essere superiori ai non iniziati; e tuttavia senza grande sforzo, senza una profonda comprensione dei problemi dell’esistenza umana, senza sapere vedere dentro e criticare la loro stessa società e gli effetti deformanti sull’uomo, senza dover cambiare il proprio carattere in quegli aspetti che importano, e precisamente sbarazzarsi della propria avidità, irosità e follia. Tutto ciò di cui si cercò di sbarazzarsi furono certe fissazioni erotiche e la loro traslazione, e sebbene talvolta questo possa essere importante, esso non è sufficiente per il conseguimento di quella trasformazione caratteriologica che è necessaria per essere in pieno contatto con la realtà.
Da un’idea progressista e coraggiosa la psicoanalisi si trasformò in un sicuro credo di quei membri impauriti e isolati della media borghesia che non trovavano rifugio nei movimenti religiosi e sociali più convenzionali del loro tempo. La decadenza del liberalismo è espressa nella decadenza della psicanalisi.

 “La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm, 1975

Freud secondo Fromm

La più impressionante e, probabilmente, la più potente forza emotiva di Freud era la sua passione per verità e la sua assoluta fede nella ragione (…).
Freud avvertiva che la ragione è l’unico strumento – o l’unica arma – che noi abbiamo per dare un senso alla vita, per liberarci dalle illusioni (delle quali, nel pensiero di Freud, i dogmi religiosi sono solo una parte), per diventare indipendenti dalle autorità che ci impacciano, e quindi affermare la nostra propria autorità (…).
Freud era un figlio dell’età dell’Illuminismo, il cui motto: “Sapere aude” – “Osa sapere” – è impresso in tutta la personalità di Freud e in tutta la sua opera. Era una fede originariamente sorta nell’emancipazione della borghesia occidentale dai vincoli e dalle superstizioni della società feudale: Spinoza e Kant, Rousseau e Voltaire, per quanto diverse fossero le loro filosofie, condividevano tutti il comune impegno nella lotta per un mondo nuovo, veramente illuminato, libero e umano (…).
Il background ebraico di Freud, se non altro, contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’Illuminismo. La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada della sua emancipazione e del suo progresso.
In aggiunta a questa tendenza generale dell’intelligencija europea del tardo Ottocento, c’erano specifiche circostanze della vita di Freud, che probabilmente rafforzarono la sua tendenza a fondarsi sulla ragione, e non sull’opinione pubblica.
Il netto contrasto con tutte le grandi potenze occidentali, la monarchia austro-ungarica era, al tempo in cui visse Freud, un corpo in putrefazione. Essa non aveva un futuro, e la forza d’inerzia, più di ogni altra cosa, teneva assieme le varie parti della monarchia, nonostante le sue minoranze nazionali lottassero freneticamente per l’indipendenza. Questo stato di decadenza e di dissoluzione politica era atto a svegliare la diffidenza di un ragazzo intelligente e destare la sua mente dubbiosa. La discrepanza tra l’ideologia ufficiale e i fatti della realtà politica era atta a indebolire la fiducia nella realtà delle parole, degli slogans, delle enunciazioni autorevoli, e tendeva a favorire lo sviluppo di una mente critica.
Nel caso particolare di Freud, un altro elemento di insicurezza deve avere accelerato questo sviluppo: suo padre, un facoltoso piccolo industriale di Freiberg (Boemia), fu costretto ad abbandonare la sua azienda in seguito alle trasformazioni dell’intera economia austriaca, che colpirono e impoverirono anche il suo paese.
Freud da ragazzo imparò per amara esperienza che si poteva confidare sulla stabilità economica altrettanto poco che sulla stabilità politica; che nessuna tradizione o sistemazione convenzionale offriva alcuna sicurezza o meritava fiducia. Per un ragazzo straordinariamente dotato, dove potevano condurlo queste esperienze se non a riportare tutta la propria fiducia in se stesso e nella ragione, come la sola arma in cui potesse osare di fidarsi? (…)

Egli era un individuo molto insicuro, che facilmente si sentiva minacciato, perseguitato, tradito, e quindi, come è facile aspettarsi, con un grande desiderio di certezza. Considerando la sua intera personalità non c’era per lui nessuna certezza nell’amore: c’era soltanto la certezza nel sapere, ed egli doveva conquistare il mondo intellettualmente, se voleva liberasi dal dubbio e dalla sensazione di fallimento. (…)
Una delle sue qualità più straordinarie era il coraggio. Molte persone hanno, potenzialmente, una passione per la ragione e la verità. Ciò che rende tanto difficile la realizzazione di questa potenzialità è che essa richiede coraggio, e questo coraggio è raro. Il coraggio di cui stiamo parlando è di tipo particolare. Non è essenzialmente il coraggio di rischiare la propria vita, la propria libertà o i propri averi, sebbene anche questo coraggio sia raro. Il coraggio di confidare nella ragione implica il rischio dell’isolamento e della solitudine, e per molti questo pericolo è persino più difficile da sopportare che non il pericolo della vita.
La ricerca della verità espone tuttavia necessariamente il ricercatore proprio a questo pericolo dell’isolamento. Verità e ragione sono l’opposto del senso comune e dell’opinione pubblica. La maggioranza si aggrappa alle convenienti razionalizzazioni e alle visioni che si possono intravedere dalla superficie delle cose. La funzione della ragione è di penetrare oltre questa superficie e di arrivare all’essenza nascosta dietro di essa.; di immaginare oggettivamente, cioè senza lasciarsi influenzare dai propri desideri e dalle proprie paure, quali siano le forze che muovono la materia e l’uomo. In questo tentativo bisogna avere il coraggio di affrontare l’isolamento da coloro che sono disturbati dalla verità e odiano il disturbatore, e di sopportarne lo scherno e il ridicolo.
Freud ebbe questa capacità in misura notevole. Egli si irritava di questo isolamento, ne soffriva, ma non fu mai disposto, o anche solo incline, a scendere al minimo compromesso che avrebbe potuto alleviarlo. Questo coraggio era il suo grande orgoglio (…).
Questo orgoglio può persino avere avuto talvolta un influsso negativo sulle sue formulazioni scientifiche. Egli era sospettoso di qualsiasi formulazione teorica che potesse risultare conciliante.

Fino a Freud si era fatto il tentativo di dominare gli affetti irrazionali dell’uomo mediante la ragione senza conoscerli, o meglio senza conoscere le loro cause più profonde. Freud, credendo di aver scoperto queste cause nei desideri libidici e il loro complicato meccanismo di rimozione, sublimazione, formazione dei sintomi etc, dovette credere che ora, per la prima volta, l’antico sogno dell’autocontrollo dell’uomo e della razionalità potesse essere realizzato. Proprio come Marx credeva di aver scoperto le basi scientifiche del socialismo, in contrasto con quello che chiamava socialismo utopico, così Freud sentiva di aver scoperto le basi scientifiche per un antico obiettivo morale e di aver così fatto un progresso rispetto alla moralità utopistica presentata dalle religioni e dalle filosofie.

Se da un lato Freud rappresentò il culmine del razionalismo, fu lui stesso a dargli nel contempo un colpo fatale. Mostrando che le cause delle azioni umane giacciono nell’inconscio, tanto in fondo da rimanere per la maggior parte per sempre precluse allo sguardo indagatore, e che il pensiero cosciente dell’uomo controlla solo in piccola misura il suo comportamento, egli minò le basi della concezione razionalistica secondo la quale l’intelletto dell’uomo domina la scena senza restrizioni o rivali. Sotto questo aspetto – la visione del potere delle forze del “mondo sotterraneo – Freud fu un erede del romanticismo, il movimento che cercò di penetrare la sfera del non-razionale.

La posizione storica di Freud può essere allora descritta come quella che ha dato luogo ad una sintesi fra le due forze contraddittorie che dominarono il pensiero occidentale del diciottesimo secolo, quelle del Razionalismo e del Romanticismo.

La Ragione, la dea del diciannovesimo secolo, alla cui realizzazione dell’uomo erano dedicati gli sforzi della psicoanalisi, aveva perduto la sua grande battaglia fra il 1914 e il 1918. La prima guerra mondiale, la vittoria del nazismo e dello stalinismo e l’inizio della seconda guerra mondiale sono altrettante tappe della sconfitta della ragione e della sanità mentale. Freud, il fiero campione del movimento che mirava alla fondazione di un mondo della ragione, dovette essere il testimone di u’era di follia sociale sempre crescente.

Egli fu l’ultimo grande rappresentante del razionalismo, e il suo tragico destino fu di finire la sua vita quando questo razionalismo era stato sconfitto dalle forze più irrazionali di cui il mondo occidentale fosse stato testimone dal tempo dei processi alle streghe.
Tuttavia, sebbene solo la storia possa pronunciare l’ultimo verdetto, io credo che la tragedia del ruolo di Freud sia quella personale di finire la propria vita durante la follia dell’hitlerismo e dello stalinismo e nelle ombre dell’olocausto della seconda guerra mondiale, piuttosto che il fallimento della sua missione. Anche se il suo movimento decadde in una nuova religione per coloro che cercavano un rifugio in un mondo pieno di ansietà e confusione, il pensiero occidentale è impregnato dalle scoperte di Freud, e il suo futuro è impensabile senza i frutti di questa fecondazione.

Ribelle e rivoluzionario

Freud è generalmente considerato un ribelle; egli sfidò l’opinione pubblica e le autorità mediche, e senza la capacità di questa sfida non avrebbe mai potuto sostenere e proclamare le sue idee sull’inconscio, sulla sessualità infantile etc.

Tuttavia Freud fu un ribelle e non un rivoluzionario. Per ribelle si intende una persona che lotta contro le autorità esistenti, ma che desidera lui stesso essere un’autorità (alla quale gli altri si sottomettono), e che non annulla la sua dipendenza da, e il suo rispetto per, l’autorità in quanto tale. Il suo spirito di ribellione è principalmente rivolto verso quelle autorità che non lo riconoscono, ed è favorevole a quelle autorità autorità che egli stesso si è scelte, specialmente quando egli stesso diventa uno di questo. Il tipo del “ribelle”, in questo senso psicologico, si può trovare tra molti uomini politici radicali, che sono ribelli prima di conquistare il potere, e diventano conservatori una volta che l’hanno conquistato. Un “rivoluzionario”, in senso psicologico, è uno che supera l’ambivalenza verso l’autorità perchè si libera dall’attaccamento all’autorità e dal desiderio di dominare gli altri.
In questo senso psicologico, Freud fu un ribelle e non un rivoluzionario. Mentre sfidò le autorità, e si compiacque di questa sfida, subì allo stesso tempo profondamente l’influsso dell’ordine sociale esistente e delle sue autorità.

Sublimazione e capitalismo

Freud pensava che l’elitè, a differenza della massa, “risparmi” il suo capitale psichico per le conquiste culturali mediante la non-soddisfazione dei desideri istintuali e mediante l’auto-deprivazione. L’intero mistero della sublimazione, che Freud non spiegò mai in maniera del tutto adeguata, è il mistero della formazione del capitale secondo il mito della borghesia del diciannovesimo secolo. La cultura è il prodotto della frustrazione istintuale, esattamente come la ricchezza è il prodotto del risparmio.

Evoluzione e limiti del movimento psicanalitico

In realtà la grande scoperta di Freud, quella di una nuova dimensione della realtà umana, l’inconscio, è un elemento di un movimento mirante alla riforma dell’uomo; ma questa stessa scoperta affondò in una maniera fatale. Essa fu applicata a un piccolo settore della realtà, quello delle pulsioni libidiche e della loro rimozione, ma scarsamente o per niente alla più ampia realtà dell’esistenza umana e dei fenomeni sociali e politici (…)

La comprensione dell’inconscio dell’individuo presuppone e richiede l’analisi critica della sua società. Il fatto stesso che la psicoanalisi freudiana difficilmente riesca a trascendere un atteggiamento liberale borghese nei confronti della società costituisce una ragione della sua limitatezza e della stagnazione nel suo stesso campo della comprensione dell’inconscio individuale.

La grande popolarità della psicanalisi in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti, fin dagli inizi degli anni trenta ha indubbiamente la stessa base sociale. Ecco una borghesia per la quale la vita ha perso significato. Non hanno nessun ideale politico o religioso, eppure sono in cerca di un significato, di un’idea alla quale dedicarsi, di una spiegazione della vita che non richieda fede o sacrifici (…)

Si deve notare che in principio, dal 1900 agli anni venti, la psicoanalisi era molto più radicale di quanto non lo sia diventata dopo aver ottenuto la sua grande popolarità. Per la borghesia cresciuta nell’età vittoriana, le affermazioni di Freud sulla sessualità infantile, sugli effetti patologici della repressione sessuale etc, erano violazioni radicali dei loro tabù, e ci voleva coraggio e indipendenza per violarli. Ma trent’anni più tardi, quando gli anni venti portarono con sé un’ondata di erotismo e un diffuso abbandono degli standard vittoriani, le stesse teorie non erano più traumatizzanti o provocatorie. Così la teoria psicanalitica ottene l’acclamazione popolare in tutti quei settori della società che erano avversi all’autentico radicalismo, cioè all’andare “alle radici”, pur essendo desiderosi di criticare e trasgredire le consuetudini conservatrici del diciannovesimo secolo. In questi circoli – vale a dire, tra i liberali – la psicoanalisi espresse la desiderabile via di mezzo tra i li radicalismo umanistico e il corservatorismo vittoriano.
La psicoanalisi divenne la soddisfazione surrogatoria d’una profonda aspirazione umana, quella di trovare un significato per la vita, di essere autenticamente a contatto con la realtà, di eliminare le distorsioni e le proiezioni che pongono un velo tra realtà e noi stessi. Essa divenne un surrogato della religion per la media e alta borghesia che non desiderava fare uno sforzo più radicale e comprensivo.
Qui, nel Movimento Psicanalitico, trovarono tutto: un dogma, un rituale, un capo, una gerarchia, la sensazione di possedere la verità, di essere superiori ai non iniziati; e tuttavia senza grande sforzo, senza una profonda comprensione dei problemi dell’esistenza umana, senza sapere vedere dentro e criticare la loro stessa società e gli effetti deformanti sull’uomo, senza dover cambiare il proprio carattere in quegli aspetti che importano, e precisamente sbarazzarsi della propria avidità, irosità e follia. Tutto ciò di cui si cercò di sbarazzarsi furono certe fissazioni erotiche e la loro traslazione, e sebbene talvolta questo possa essere importante, esso non è sufficiente per il conseguimento di quella trasformazione caratteriologica che è necessaria per essere in pieno contatto con la realtà.
Da un’idea progressista e coraggiosa la psicoanalisi si trasformò in un sicuro credo di quei membri impauriti e isolati della media borghesia che non trovavano rifugio nei movimenti religiosi e sociali più convenzionali del loro tempo. La decadenza del liberalismo è espressa nella decadenza della psicanalisi.

La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm, 1975

Nietzsche e Freud su religione, arte e filosofia

Da un lato le nevrosi presentano chiare  e profonde concordanze con le grandi istituzioni sociali inerenti l’arte, la religione e la filosofia; dall’altro ci appaiono come deformazioni delle istituzioni stesse. Potremmo quasi dire che l’isterismo è una deformazione di un’opera d’arte, la nevrosi ossessiva una deformazione della religione, il delirio paranoico una deformazione di un sistema filosofico. in definitiva, questa diversità si spiega col fatto che le nevrosi sono formazioni asociali, che si sforzano di creare con mezzi privati ciò che la società ha creato col lavoro collettivo.

Totem e Tabù, Sigmund Freud, 1913

Così gli isterici sono senza dubbio immaginifici artisti, anche se esprimono le loro fantasie mimeticamente, nella maggioranza dei casi, senza curarsi della loro intelligibilità per gli altri; i cerimoniali e i divieti dei nevrotici ossessivi ci inducono a credere che costoro si siano creati una religione privata per proprio conto; i deliri dei paranoici possiedono una sgradevole rassomiglianza esteriore e un’affinità interiore con i sistemi dei nostri filosofi. Non possiamo evitare di dedurne che questi malati compiono, in modo asociale, veri e propri tentativi di risolvere i loro conflitti e di sedare le loro pressanti necessità, che, quando tali tentativi siano compiuti in modo accettabile per la maggioranza, vanno sotto il nome di poesia, religione e filosofia.

Il rituale, prefazione a “problemi di psicologia religiosa”, Sigmund Freud, 1919

Dovunque si è manifestata finora sulla terra la nevrosi religiosa, noi la troviamo collegata con tre pericolose prescrizioni dietetiche: solitudine, digiuno, astinenza sessuale – però senza che qui si possa decidere con sicurezza che cosa sia causa, che cosa effetto e se in genere sussista qui un rapporto di causa ed effetto.
Legittima quest’ultimo dubbio il fatto che proprio uno dei sintomi più regolari di essa, presso i popoli selvaggi come presso quelli addomesticati, sia la più improvvisa e sfrenata libidine, che poi altrettanto improvvisamente si capovolge in spasimo di espiazione e in negazione del mondo e della volontà: due cose interpretabili forse come epilessia mascherata?

La pazzia è nei singoli qualcosa di raro, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli e nei tempi è la regola

Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche, 1885

Se la donna non è degradata non c’è piacere

(IMPOTENZA PSICHICA)

Avanzerò l’ipotesi che l’impotenza psichica sia molto più diffusa di quanto non si creda e che, infatti, in una certa misura questo comportamento caratterizzi la vita amorosa dell’uomo civilizzato (…) gli uomini definiti psichicamente frigidi: costoro compiono sempre con successo l’atto sessuale, ma non ne ricavano alcun piacere particolare, e questo fatto è molto più comune di quanto si creda.

Due motivi dell’impotenza psichica: l’intensa fissazione incestuosa dell’infanzia e la frustrazione dovuta alla realtà nella adolescenza. Potrà sembrare non solo sgradevole ma anche paradossale, e purtuttavia si deve dire che per essere veramente liberi in amore si deve superare il rispetto per le donne e venire a patti con l’idea dell’incesto con la madre o con la sorella. Chi si sottoponesse a un serio esame di coscienza riguardo a questa esigenza, scoprirebbe certamente che considera l’atto sessuale fondamentalmente come qualcosa di degradante che insudicia e contamina non solo il corpo ma anche l’anima. L’origine di questa bassa opinione, che egli certamente non vorrà ammettere di possedere, va ricercata nel periodo della sua giovinezza durante la quale la corrente sensuale era già decisamente sviluppata ma il suo appagamento con un oggetto esterno alla famiglia era proibito quanto lo era con un oggetto incestuoso.

L’importanza psichica di un istinto aumenta in proporzione alla sua frustrazione.

I genitali in se stessi non hanno partecipato a quell’aspetto dello sviluppo umano riguardante la bellezza: sono rimasti animali e quindi anche l’amore è rimasto, nella sua essenza, animale come è sempre stato. Gli istinti erotici sono difficili da educare. La loro educazione a volte dà troppo, a volte troppo poco. Il modo in cui la civiltà cerca di trasformarli ha come prezzo una sensibile perdita di piacere, la persistenza degli impulsi inutilizzati può essere individuata nell’attività sessuale sotto forma di non-appagamento.

Potremmo, quindi, essere costretti a riconciliarci con l’idea che è assolutamente impossibile adeguare le esigenze dell’istinto sessuale a quelle della civiltà e che, in conseguenza del suo sviluppo, la razza umana non può evitare la rinuncia e la sofferenza nonché il pericolo di estinguersi in un lontanissimo futuro.

(DEGRADAZIONE DELL’OGGETTO SESSUALE)

Non appena si realizza la condizione di devalorizzazione psichica dell’oggetto sessuale, la sensualità può esprimersi liberamente e si possono sviluppare notevoli capacità sessuali e un alto grado di piacere.

Solo in una minoranza di persone le due correnti dell’affetto e della sensualità si sono perfettamente fuse; l’uomo sente quasi sempre che il suo rispetto per la donna agisce come una restrizione sulla propria attività sessuale, e sviluppa tutta la sua potenza solo quando si trova con un oggetto sessuale degradato e questo fatto è a sua volta determinato in parte dalla presenza di componenti perverse nelle mete sessuali, che non osa soddisfare con una donna che rispetta.

Ciò costituisce la fonte del suo bisogno di un oggetto sessuale degradato, di una donna eticamente inferiore, che non conoscendolo nelle sue altre relazioni sociali non può giudicarlo, ed a cui non deve attribuire scrupoli estetici.

(SUBLIMAZIONE)

L’incapacità dell’istinto sessuale di concedere una completa soddisfazione non appena accetta le prime richieste della civiltà diventa la fonte, tuttavia, delle più nobili conquiste culturali ottenute mediante una sublimazione sempre maggiore delle sue componenti istintuali. Infatti, quali motivi avrebbero gli uomini per adibire ad altri usi le forze istintive e sessuali se, mediante una loro distribuzione, potessero ottenere un piacere pienamente soddisfacente? Essi non abbandonerebbero mai quel piacere e non compirebbero più alcun progresso. Sembra, perciò, che l’inconciliabile differenza tra le esigenze dei due istinti – quello sessuale e quello egoistico – abbia reso gli uomini capaci di conquiste sempre maggiori, benchè soggetti, è vero, ad un costante pericolo al quale, sotto forma di nevrosi, oggi soccombono i più deboli.

(CIVILTA’ PRIMITIVE E PAURA DELLA DONNA)

 L’uomo primitivo è vittima di una perpetua disposizione all’angoscia…questa disponibilità all’angoscia si manifesta con maggiore forza in tutte le occasioni che differiscono in qualche modo dal normale, che implicano qualcosa di nuovo o inaspettato, qualcosa di non comprensibile o strano. Essa costituisce anche l’origine delle pratiche cerimoniali, estensivamente adottate nelle religioni più tarde, associate con l’inizio di ogni nuova impresa e di ogni nuovo periodo di tempo, i primordi della vita umana, animale e vegetale. I pericoli da cui l’uomo in angoscia si crede minacciato mai gli appaiono più vivi di quando si trova in una situazione pericolosa, e quella è per altro l’unica volta che ha senso proteggersi da esso. Nel matrimonio il primo rapporto sessuale può certamente esigere, in virtù della sua importanza, di essere preceduto da tali misure precauzionali (rituali, cerimonie, etc ndr)…

…(nelle civiltà primitive ndr) il rapporto con le donne è soggetto a restrizioni tanto solenni e numerose che abbiamo ogni ragione di dubitare sulla presunta libertà sessuale dei selvaggi….

L’uomo primitivo ovunque abbia eretto un tabù teme qualche pericolo e non c’è alcuni dubbio che in tutte queste regole volte a evitarlo si manifesti una paura generalizzata delle donneQuesta paura si basa forse sul fatto che la donna è diversa dall’uomo, sempre incomprensibile e misteriosa, strana e quindi apparentemente ostile. L’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di restare infetto dalla sua femminilità e quindi di apparire incapace.

Il coito, scaricando le tensioni e provocando flaccidità, produce l’effetto che può rappresentare il prototipo di quel che l’uomo teme, e il rendersi conto dell’influenza che la donna esercita su di lui mediante il rapporto sessuale, la stima che ottiene da lui, possono giustificare l’aumento di questa paura. In tutto ciò non v’è nulla di desueto, nulla che non sia ancora vivo anche tra noi.

Sulla tendenza universale alla devalorizzazione della vita amorosa,
Sigmund Freud, 1912

L’anticristo, Nietzsche

Questo libro è riservato a pochissimi. Forse nemmeno uno di essi è ancora nato.
Solo il postdomani mi si addice – C’è chi viene al mondo, postumo.
Le condizioni alle quali mi comprendono, e allora per forza comprendono – le conosco anche troppo bene.
Uno deve essere inflessibile fino alla durezza nelle cose dello spirito, per sopportare anche soltanto la mia serietà, la mia passione.
Uno dev’essere avvezzo a vivere sui monti – a vedere sotto di se il meschino ciarlare dell’epoca sulla politica e sull’egoismo dei popoli. Uno dev’essere divenuto indifferente, nè deve mai domandare se la verità serva, se per qualcuno essa diventi sorte ineluttabile…
Una predilezione della forza per domande di cui nessuno oggi ha il coraggio; il coraggio del proibito; la predisposizione al labirinto.
Una esperienza di sette solitudini. Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il lontanissimo. Una nuova coscienza per verità fin qui rimaste mute.
E volontà per l’economia in grande stile: conservare intatti la propria energia, il proprio entusiasmo…e rispetto di sè; l’amore di sè; l’incondizionata libertà verso se stessi…
Ebbene si! Questi soli sono i miei lettori, i miei lettori predestinati: che importa del resto? – il resto è solo l’umanità – All’umanità uno deve essere superiore per forza, per altezza d’animo – per disprezzo…

Prefazione de “L’anticristo”, Friedriche Nietzsche

La morale, il Principio di Realtà, il Super Io
Dobbiamo essere quel che dobbiamo-essere?

Pensiamo oggi, l’uomo contemporaneo.
Pensiamo ai miliardi di uomini nati vissuti morti nelle diverse latitudini ed epoche storiche.
Quanto dolore, quanta sofferenza e frustrazione, deriva dalla distanza tra l’essere e il dover-essere?
Tra il comportamento quotidiano e gli imperativi morali ai quali ci sentiamo di dover obbedire?
E poi – altro discorso – quanta violenza e cattiveria deriva da questa distanza, da questo dolore sofferenza frustrazione?

La violenza genera altra violenza. Stesso discorso vale per dolore sofferenza frustrazione. È un circolo vizioso, bagnato nel sangue e nell’odio.

Comunque, si diceva, la distanza tra essere e dover-essere.

Le nevrosi, per Freud, derivano tutte dal cattivo rapporto tra Super Io (l’imperativo morale) ed Es (l’istinto).
Nevrotico è quell’individuo il cui l’Io (entità mediatrice) non riesce ad equilibrare le istanze dell’Es e quelle del Super Io.

Ma Nietzsche – totalmente fuori dal consorzio civile – pone una questione che il “mondano” Freud non arriva ad indagare.

Queste imposizioni morali, da dove arrivano?
Che storia hanno?
Come si è formato, nei millenni di storia umana, il contenuto del nostro Super Io?

Ma soprattutto.
Sono giuste per l’uomo, queste imposizioni morali?
Sono coerenti con La Vita, ovvero favoriscono il percorso verso il pieno dispiegamento dell’Uomo in tutte le sue potenzialità?

Freud si limita a dire che La Società – tramite il principio di Realtà radicato nel Super Io – costringe necessariamente l’individuo a sacrificare una fetta di godimento (il Principio del Piacere radicato nell’Es) per garantire la sua sicurezza e la sua autoconservazione.
Ma non esprime nessun giudizio di valore sul contenuto, sulla sostanza, di questo Principio di Realtà.
Sulle imposizioni morali del Super Io.
Freud non arriva a tanto.

Invece questa è la battaglia principale di Nietzsche. Il giudizio di valore.
Dice Nietzsche.

Le imposizioni morali del nostro Super Io, frutto di millenni di cristianesimo, ebraismo e metafisica, sono la cosa più contronatura, antivitale e mortifera che esista.

Esse sono state plasmate da energie al tramonto, da gente prossima alla morte, che – per sopravvivere – potevano soltanto odiare ogni manifestazione della Pienezza di Vita.
E di questo odio hanno fatto un sistema, che si chiama ordine morale del mondo, metafisica, monoteismo metafisico, cristianesimo.

Per spiegare questo, egli chiama a giudizio tutta la storia umana.

Cos’era la religione, e cos’è diventata

La religione, prima della metafisica monoteistica e dall’ordine morale del mondo inventati dagli ebrei e perfezionata dal cristianesimo di Paolo di Tarso, era un modo per impiegare una sovrabbondanza di forza, di salute, di potenza.

Un popolo è talmente in salute, talmente ricco e pieno di vita, che crea un Dio o più Dei e destina loro una parte della sua sovrabbondanza di forze.

Un uomo nel pieno delle sue forze, così come un popolo – una umanità – nel pieno delle sue forze, non ha paura di guardare in faccia la realtà, il divenire, affrontare tutte le manifestazioni umane e naturali, farsi compenetrare dalla natura, dal cosmo e dall’umanità, racchiudere in sé le spinte all’essere, della sovrabbondanza di vita, ma anche la tensione verso l’annullamento – la coscienza della morte – essere tutto e il contrario di tutto.
(Questo era lo spirito della tragedia greca secondo La Nascita della Tragedia, il primo libro di Nietzsche. Non catarsi, non purificazione, non allontanare-il-dolore – come diceva Aristotele – bensì immergersi nell’estremo dolore e nell’estremo piacere, respirare e mordere tutta l’enormità della natura, del cosmo e dell’umanità).

Il Dio o gli Dei in questione non sono certo “buoni” come intendiamo oggi il concetto di buono.

Che bisogno c’è di “bontà”, infatti, se siamo vivi a tal punto, se siamo al culmine della nostra forza?

Essi – il Dio o gli Dei in questione – sono semplicemente umani.
Santificazione e celebrazione della straordinaria grandezza dell’Essere Umano.

Così sono gli Dei dell’antica Grecia, la Grecia presocratica – grandi contenitori di energie e significati di un popolo libero, esuberante, entusiasta, al culmine del proprio splendore.

Così è il Dio degli ebrei durante la loro Età dell’Oro.
Un Dio bastardo e arbitrario, terribile e sfaccettato, che racchiude dentro di sé tutto il “bene” e il “male” della natura, del mondo e dell’umanità.

La decadenza dei greci: la metafisica

Quando per i greci comincia la decadenza, inventano la metafisica. Socrate, Platone, Aristotele.
Inventano un “altro mondo”, frutto della nostalgia di quando erano al culmine della potenza, e lo chiamano Iperuranio, mondo delle idee.
Inventano e teorizzano La Perfezione. Una entità astratta, inesistente, di cui gli elementi della realtà sono soltanto ombre smunte, imitazioni imperfette.
I greci della decadenza spaccano il mondo in due.
Creano due “mondi”: uno che esiste, l’altro che non esiste.
Ma non finisce qui.
Essi, con la metafisica, rendono il mondo che non esiste più importante del mondo che esiste.
Questa follia è la prova della loro decadenza, del loro essere prossimi a soccombere.

La decadenza degli ebrei:
il monoteismo metafisico e l’ordine morale del mondo

Con la decadenza degli ebrei, il Dio degli ebrei comincia a cambiar fattezze. Da bastardo e arbitrario – frutto della sovrabbondanza di energia – diviene sempre più astratto e “spirituale”, sempre più “buono” e lontano del mondo.
Il capovolgimento folle della metafisica già operato dai greci, negli ebrei viene potenziato dall’utilizzo della Scrittura, delle Scritture.
Gli ebrei divengono allora il popolo della dittatura del Libro, della Legge Scritta che si impone come Guida e Assoluto Condizionamento della vita dei viventi
Viene così capovolto quello che fino ad allora è stato il rapporto tra Vita e Scrittura.

Ma chi ha scritto il Libro che diventa Guida e Assoluto Condizionamento per la vita dei viventi?
Un popolo in decadenza, che sta soccombendo, che teme la morte perché è prossimo alla morte.

Così la vita dei viventi viene Guidata e Assolutamente Condizionata dalle Scritture di un Libro scritto da moribondi.
I moribondi comandano, piano piano, secolo dopo secolo, sui vivi.

Succede così che gli ebrei cominciano ad attaccarsi alla loro mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza. Ne fanno – con sofisticati meccanismi intellettuali e soprattutto con la potenza dello strumento blasfemo della Scrittura – ne fanno l’unico modo legittimo di vivere.

Questo è il disastro dell’ordine morale del mondo. Il suo sacrilegio nei confronti della Vita.

Viene intessuta una fitta tela di dover-essere e imposizioni morali totalmente contronatura che soffocano ogni impulso vitale dell’uomo.
Viene legittimata in questo modo la mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza.
Vengono combattuti e osteggiati tutti gli istinti della vita traboccante – propria di una umanità al culmine della propria salute.

Ai discendenti dei discendenti dei discendenti degli ebrei – tramite l’ordine morale del mondo – vengono soffocate e mortificate tutte le più pure energie vitali. Queste divengono vergogna, peccato, senso di colpa.

In pratica, per conformarsi alla mediocrità debolezza vecchiaia malattia fiacchezza di un popolo in declino, tutti i componenti di quel popolo – anche quelli più giovani e forti – sono costretti a diventare anch’essi mediocri, deboli, vecchi, malati e fiacchi.

Gli ebrei dell’ordine morale del mondo sono come i greci della metafisica.
Stanno per morire e non vogliono ammettere di star per morire.

Muoiono, ma restano in vita, impedendo così il corso naturale delle cose.
L’ordine morale del mondo, tenuto in piedi dalla Scrittura, è il loro accanimento terapeutico.

Gli ebrei pronunciano così la loro grande bestemmia.
Vanno contro natura.

Passata la fase della salute, secondo natura, c’è il tramonto, la vecchiaia, e poi la morte.
Secondo natura, un uomo – o un popolo, o una umanità – che sta per soccombere deve soccombere per fare spazio ad altro. Il ciclo vitale nascita-vita-distruzione è la regola di tutto. Di uomini, popoli, imperi, regole, usi e costumi. È la vita. È la realtà. È il mondo.

Con gli ebrei, succede che il moribondo non vuole morire. E non ha la forza – ovviamente – per rimettersi in sesto, tornare pienamente vivente. E quindi vuole sopravvivere, restare moribondo per l’eternità.

Fin qui tutto normale. Il problema è che gli ebrei ci riescono.

Sopravvivono in maniera miserevole, strisciando come vermi e impediscono ogni evoluzione, ogni ricambio.
Tutta la vita possibile, le energie, le evoluzioni future dell’uomo, le potenzialità, tutto viene soffocato per via di questi corpi morti che circolano ancora contronatura e dettano Legge.

Non c’è più spazio per il libero dispiegarsi di niente.
La realtà viene fissata dalle Scritture, dalla morale, dalla metafisica e dalla religione.
La realtà viene gestita secondo regole elaborate da gente morta che non si vuole togliere dai piedi.

Si nega il divenire, il tempo, la vita, la storia, la realtà.
Il presente e il futuro si cristallizza nelle Leggi dei Morti.

Ma fin qui, niente di troppo disastroso, a conti fatti.

Questa dinamica malata, perversa, blasfema, appartiene soltanto agli ebrei.
Così come la metafisica dei greci in decadenza probabilmente si sarebbe esaurita prima o poi, spazzata via da qualche forza vitale più forte.

Ma la sciagura più grande, quella che rende universale la malattia la perversità la blasfemia, è il cristianesimo di Paolo di Tarso, che contamina tutto il mondo allora conosciuto.

Il Dio in croce simbolo di

Il cristianesimo è l’evoluzione finale di questo tipo di ebraismo che-non-accetta-di-morire-e-lasciare-spazio-al-nuovo.

È lo stratagemma geniale e diabolico per permettere ad un un morto di continuare a sopravvivere trasformando gli altri vivi in morti.

Se il Dio – come è stato detto – è la rappresentazione di un popolo, di un’umanità, di un tipo d’uomo, allora il Dio dei cristiani svela la sua natura ad una prima occhiata.

Il Dio in croce, il dio che soffre, il dio moribondo e pieno di ferite.

Il cristianesimo è la religione di tutti coloro che soffrono, che sono sbagliati per questo mondo, che esprimono debolezza, fiacchezza, malattia.

Il cristianesimo legittima tutta la sofferenza e agisce sul resto del mondo con tutta la violenza, l’odio e il risentimento di cui è capace la vittima.

Il cristianesimo è la vittoria delle vittime sul resto del mondo.

Vittime che non hanno nemmeno la forza di cambiare, di migliorarsi, di fare qualcosa per non essere più vittime.

Vittime che restano vittime e ci fanno su una religione. E poi, con tutta la violenza, l’odio e il risentimento di cui sono capaci, vogliono che tutto l’umanità soffra come loro. Vogliono che tutta l’umanità diventi un’umanità di vittime.

La legittimazione della sofferenza, della debolezza, della malattia – iniziata col cristianesimo su scala mondiale – ha prodotto effetti disastrosi per l’umanità.

I sofferenti, i deboli e i malati non fanno più niente per non esserlo, e anzi non fanno altro che mettere i bastoni tra le ruote a chi non lo è.

Il cristianesimo condanna la salute, la sovrabbondanza di vita, l’esuberanza, l’energia, la potenza.

Tutto quello che è indizio di “vita piena” diventa peccato.

La compassione è lo stratagemma con cui colui che vive pienamente perde la sua Vita Piena per colpa di colui che non vive pienamente.

Il cristianesimo è un sistema di potere in cui il potere è esercitato dai compatiti.
Le armi di questo sistema di potere sono il peccato, la compassione, gli obblighi morali, il senso di colpa, la coscienza, il Super Io.

In questo modo – “muoia Sansone e tutti i filistei” – i morti perpetrano la loro esistenza mortifera facendo diventare tutti morti e perseguitando coloro che sono ancora vivi.

Questa cosa va avanti da duemila anni.

Come è possibile una cosa del genere?

Soprattutto, con la prima mossa “democratica” – numerica, quantitativa – della storia.

Paolo di Tarso – il sistematizzatore del cristianesimo (Gesù Cristo e cristianesimo sono due cose separate) – ha creato un sistema che è riuscito a chiamare alle armi tutti i sofferenti, gli sbagliati, i perdenti, i moribondi, i malati, i deboli, del mondo.

Paolo di Tarso ha creato un sistema che si basa sul risentimento e sull’odio – sulla faziosità esasperata, sui toni urlati e sulla guerra permanente.

Non c’è serenità intellettuale, nel cristianesimo di Paolo di Tarso. C’è solo furore.

In questo modo non ci sono ragioni che tengano. Si fa leva sugli umori peggiori, sull’invidia, sulla gelosia, sull’odio, sull’esasperazione, sul risentimento.

I cristiani agiscono sempre in uno stato di euforia – come ubriachi – e i martiri sono stati il suggello della loro vittoria folle e anti-intellettuale.

Se qualcuno muore per un’idea, quell’idea dev’essere senz’altro giusta. È un argomento fortissimo.

È nel sangue dei martiri, infatti, che è cresciuto e si è sviluppato il cristianesimo.

Poi la castità. E tutte le imposizioni arbitrarie dell’ordine morale del mondo – gli stenti e le privazioni, le sofferenze autoinflitte – che provocano repressione e violenza interiore, che in qualche modo si deve sfogare all’esterno.

E il furore sessuale attizzato dal corpo nudo di quel bel Cristo in croce e dalla bellezza velata, tutta da scoprire, della Vergine Maria.

E il richiamo irresistibile – per i perdenti – ad “un altro mondo” che sia migliore di quello che si vive ogni giorno,
e il richiamo al proprio dolore e alla propria sofferenza,
alla speranza che tutto può essere riscattato in quell’ “altro mondo”, dove tutto – a partire da me stesso – sarà più giusto.

La speranza! Che i greci hanno posto in fondo al vaso di Pandora, fonte di tutti i mali. La speranza! Il male peggiore!

Il cristianesimo è l’epidemia che ha devastato l’umanità per tutti i millenni successivi.
I bacilli sono stati allevati in laboratorio da Paolo di Tarso.

PS –  Sulla violenza

L’uomo – o un popolo, o una umanità – crea una morale quando sta per soccombere.

Perchè un uomo – o un popolo, o una umanità – al culmine della sua salute non ha nessun bisogno di morale, di dover-essere.
Egli trabocca, e le sue armi sono l’energia e l’intuito.
Egli scorre, asseconda il divenire, si dispiega con forti bracciate.
Segue naturalmente i suoi istinti vitali, dice sì alla vita, asseconda le energie che egli sente dentro di sé e percepisce dal mondo.

La violenza contro gli altri la usa solo è necessario.

Invece la morale, l’ordine morale del mondo, come si è detto, è stato lo stratagemma di un popolo per continuare miserevolmente a sopravvivere, a strisciare come un verme.

L’uomo – o il popolo, o l’umanità – non riesce a sentire più la vita che gli scorre tra le vene, non riesce a muoversi autonomamente, e quindi si affida ai dover-essere, alle Scritture, ad un Altro Mondo Che Non Esiste.

Ma i dover-essere sono stati elaborati da gente che ha in odio la Vita.

Le imposizioni morali vanno contro ciò che è Vita.

La violenza, quella vera, grave, viene da qua.

Ci sono due possibilità.

  1. La violenza che viene dai cattivi sentimenti dei deboli, dei sofferenti, dei malati. Di quelli che stanno per morire e non vogliono morire. E, per continuare a sopravvivere, non hanno scrupoli ad avvelenare tutto il resto.
  2. La violenza che viene dalla repressione degli istinti vitali. Dal dolore della compressione della propria libertà e della propria vita. Dall’essere costretti a giudicare i propri istinti migliori come fonte di vergogna, peccato e senso di colpa.

Questi due tipi di violenza sono prodotti da dinamiche contronatura.
E sono violenze esasperate, esagerate, spropositate.
Sono frutto della paura e del risentimento, sono frutto della debolezza e della malattia,
sono violenze ruminate, rimasticate, rimestate, torbide.
Sono queste le atrocità, le mostruosità, le crudeltà disumane.

L’umanità giusta, la “natura”, per Nietzsche, contiene pure violenza, ma in casi rarissimi. Si tratta comunque di una violenza leale, luminosa, cristallina.
Un gesto, un’azione.

Dice Nietzsche che, se agli spiriti sani e forti fosse permesso dispiegare liberamente la propria vita, la benevolenza verso i meno fortunati verrebbe spontanea. Sarebbe un’ulteriore dimostrazione della loro sovrabbondanza di energie.

La misericordia verso i più deboli, in un mondo in cui le differenze sono rispettate, secondo l’ideale antidemocratico di Nietzsche, è qualità insista nella natura delle anime nobili e superiori.
La cattiveria e la vera violenza, invece, quella subdola, viscida, subliminale, ma anche quella più distruttiva in assoluta – perchè priva di amor proprio – deriva invece dagli spiriti inferiori, rozzi, degradati, che non trovano altra via di uscita alla loro frustrazione e alla loro impotenza che quella di allargare tutte le ferite in cui si imbattono.

Alcuni brani

C’è una grande scala della crudeltà religiosa, con molti piuoli; ma tre di essi sono i più importanti. Un tempo si sacrificavano al proprio Dio esseri umani, e forse proprio quelli che si amavano di più – ne fanno parte i sacrifici dei primogeniti praticati in tutte le religioni preistoriche, anche il sacrificio dell’imperatore Tiberio nella grotta di Mitra dell’isola di Capri, il più orrendo di tutti gli anacronismi romani. Poi, nell’epoca morale dell’umanità, si sacrificarono al proprio Dio gli istinti più forti che si possedevano, la propria “natura”. 

Questa gioia di festa brilla nello sguardo crudele dell’asceta, l’uomo fanaticamente “contronaturale”. Infine: che cosa restava ancora da sacrificare? Non si doveva infine sacrificare tutto quanto vi è consolante, di sacro, di risanatore, ogni speranza, ogni fede in un’armonia nascosta, nelle beatitudini e giustizie future? Non si doveva sacrificare Dio stesso e, per crudeltà verso se stessi, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla – questo mistero paradossale dell’estrema crudeltà è stato riservato alla generazione che sta venendo su: noi tutti ne sappiamo già qualcosa. Ciò che fa meraviglia, nella religiosità degli antichi Greci, è la strabocchevole pienezza di gratitudine che ne prorompe: è un tipo d’uomo nobilissimo, quello che si pone così di fronte alla natura e alla vita! Più tardi, quando in Grecia la plebe prese il sopravvento, la paura lussureggiò anche nella religione: si andava preparando il cristianesimo. La fede cristiana è fin dal principio sacrificio: sacrificio di ogni libertà, di ogni orgoglio, di ogni consapevolezza di sè dello spirito; e contemporaneamente asservimento e dileggio di sè, automutilazione. C’è crudeltà e religiosità fenicia in questa fede che si pretende da una coscienza infrollita, multiforme e viziatissima; il suo presupposto è che la sottomissione dello spirito faccia indicibilmente male, che tutto il passato e ogni consuetudine di un tale spirito si oppongano a quell’absurdissimum sotto l’aspetto del quale la “fede” gli viene incontro. Gli uomini moderni, con la loro ottusità per ogni nomenclatura cristiana, non avvertono più l’orrore superlativo che si annidava per il gusto antico nel paradosso della formula “Dio in croce”. Finora non c’è stato mai e in nessun luogo una pari arditezza nel sovvertire, mai qualcosa di ugualmente terribile, interrogativo e problematico come questa formula. Essa prometteva il rovesciamento di tutti i valori antichi. Fu l’Oriente, il profondo Oriente, fu lo schiavo orientale, che in qualche modo si vendicò di Roma e della sua tolleranza aristocratica e frivola, del “cattolicesimo” romano della fede – e fu sempre non la fede, ma la libertà dalla fede, quella noncuranza semistoica e sorridente disinvoltura con la serietà della fede, a suscitare negli schiavi lo sdegno verso i propri padroni, la rivolta contro i loro padroni. Il “rischiaramento” suscita sdegno; lo schiavo cioè vuole cose assolute, capisce solo ciò che è tirannico, anche nella morale, ama come odia, senza sfumature, fino in fondo, fino al dolore, fino alla malattia; il suo molto dolore nascosto si ribella contro il gusto aristocratico che sembra negare il dolore.  Lo scetticismo verso il dolore, in fondo solo un atteggiamento della morale aristocratica, non ha contribuito per il meno all’origine dell’ultima grande sollevazione degli schiavi che è cominciata con la rivoluzione francese. Chi ha scrutato il mondo in profondità, capisce bene quale saggezza ci sia nel fatto che gli uomini siano superficiali. è il loro istinto di conservazione che insegna loro ad essere volubili, leggeri e falsi. Si trova qua e là un’appassionata ed esagerata adorazione delle “forme pure”, presso i filosofi come presso gli artisti: c’è da esser sicuri che chi in tal modo ha bisogno del culto della superficialità, ha fatto una qualche volta un tentativo infelice al di sotto di essa. Forse c’è addirittura per questi fanciulli bruciati, gli artisti nati, che trovano la gioia di vivere ancora e soltanto nell’intenzione di falsificarne l’immagine (come una prolungata vendetta contro la vita), anche un ordinamento gerarchico: si potrebbe desumere il grado di cui sono disgustati dalla vita dalla misura in cui desiderano vederne falsificata, assottigliata, trascendetizzata, divinizzata l’immagine – si potrebbero annoverare tra gli artisti anche gli hominem religiosi come il loro ordine più elevato, è la profonda, sospettosa paura di un pessimismo incurabile, che costringe interi millenni ad attaccarsi coi denti a un’interpretazione religiosa dell’esistenza: la paura di quell’istinto che intuisce che si potrebbe venire troppo presto in possesso della verità, prima che l’uomo sia diventato abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista…La religiosità, la “vita in Dio”, considerata da questo punto di vista apparirebbe allora l’ultimo e il più sottile parto della paura della verità, l’adorazione, l’ebbrezza dell’artista di fronte alla più coerente di tutte le falsificazioni, la volontà di capovolgere la verità, un volere la non-verità a ogni costo. Forse non c’è stato finora nessun mezzo più forte per abbellire l’uomo stesso che la religiosità appunto: grazie ad essa, l’uomo può diventare a tal punto arte, superficie, gioco di colori, bontà, che la sua vista non fa più soffrire. Si dà per l’uomo, come per ogni altra specie animale, un eccesso di esemplari malriusciti, malati, degenerati, cagionevoli, necessariamente sofferenti; i casi riusciti sono anche per l’uomo sempre l’eccezione e, pur considerando che l’uomo è  l’animale non ancora determinato, l’eccezione rara. Ma peggio ancora: quanto più alto è il tipo che è rappresentato da un certo essere umano, tanto più cresce l’improbabilità che costui riesce bene.
Il caso, la legge dell’assurdo in tutta l’economia dell’umanità si rivelano nel modo più spaventoso nei loro effetti distruttivi sugli uomini superiori, le cui condizioni di vita sono delicate, multiformii e difficili da calcolare. Ora, come si comportano le due suddette religioni maggiori (cristianesimo e buddhismo ndr) con questo sovrappiù di casi malriusciti? Cercano di conservare, di mantenere in vita ciò che in qualche modo si può conservare, anzi prendono partito per principio a suo favore, come religione dei sofferenti, danno ragione a tutti coloro che soffrono della vita come di una malattia e cercano di fare in modo che ogni altro sentimento della vita sia considerato falso e diventi impossibile (…)
In un calcolo globale le religioni che ci sono state finora, quelle cioè sovrane, sono state tra le sue cause principali del fatto che il tipo “uomo” sia stato  mantenuto su un gradino più basso – ed esse hanno conservato troppo di quel che sarebbe dovuto perire. (…)
Capovolgere
 tutti i giudizi di valore – ecco cosa dovettero fare! E spezzare i forti, ammorbare le grandi speranze, rendere sospetta la felicità nella bellezza, fiaccare ogni senso di sovranità, di virilità, di conquista, di avidità di potere, tutti gli istinti che sono propri del tipo “uomo” più alto e riuscito, trasformando tutto ciò in insicurezza, tormento di coscienza e autodistruzione, anzi tramutando tutto l’amore per ciò che è terrestre e per il dominio sulla terra in odio contro la terra e le cose terrene – questo si prefisse e si dovette prefiggere la Chiesa come suo compito, finchè nella sua valutazione, “smondanizzazione”, “desensualizzazione” e “uomo superiore” si fusero insieme in un solo sentimento.  (…)
Non sembra infatti che per diciotto secoli abbia dominato in Europa questa sola volontà di fare dell’uomo un sublime aborto? (…)


Al di là del bene e del male, Friedriche Nietzsche


Al cristiano la malattia è necessaria, pressappoco come alla grecità è necessaria un’esuberanza di salute
 – rendere malati è la vera intenzione recondita dell’intero sistema di procedure di salvezza della Chiesa (…
Il mondo interiore dell’uomo religioso assomiglia al mondo interiore dei sovraeccitati e degli esauriti; gli stati d’animo “altissimi” che il cristianesimo ha sospeso sull’umanità come valori di tutti i valori, sono forme epilettoidi – la Chiesa ha proclamato santi in majorem dei honorem solo mentecatti e grandi impostori.

A noi altri, a noi che abbiamo il 
coraggio della salute e anche del disprezzo, a noi è lecito disprezzare una religione che ha insegnato a fraintendere il corpo, che non vuole sbarazzarsi delle superstizioni dell’anima, che fa dell’insufficiente nutrizione un “merito”, che nella salute combatte una specie di nemico, di diavolo, di tentazione, che si è data ad intendere che si possa portare in giro un’ “anima perfetta” in un cadavere di corpo, ed ebbe bisogno di predisporsi, a tal fine, una nuova nozione della “perfezione”, un modo di essere esangue, malaticcio, fanatico-idiota, la cosiddetta “santità” – santità che null’altro è che una serie di sintomi di un corpo impoverito, snervato, inguaribilmente devastato!…Il movimento cristiano, in quanto movimento europeo, è sin dall’inizio un movimento collettivo di elementi di scarto e di rifiuto di ogni sorta: – essi, col cristianesimo, aspirano alla potenza.
Il cristianesimo non era “nazionale”, non era legato alla razza – si rivolgeva ad ogni sorta di diseredati della vita, aveva ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla base la rancune dei malati, ha indirizzato l’istinto 
contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è ben fatto, orgoglioso, esuberante, la bellezza innanzitutto, gli fa male agli occhi e alle orecchie.
Ancora una volta rimando all’ineffabile parola di Paolo: “Quel che è
 debole per il mondo, folle per il mondo, quel che per il mondo è ignobile e oggetto di disprezzo, Dio lo ha prescelto”.
Dio sulla croce – ancora non vi è chiara la spaventosa riserva mentale rappresentata da questo simbolo?
Il cristianesimo è stato fino a questo momento la più grande sciagura dell’umanità.
Poichè la malattia fa parte dell’essenza del cristianesimo, anche il tipico stato d’animo cristiano, la “fede”, deve essere una forma di malattia, tutte le vie diritte, leali, scientifiche alla conoscenza devono venir rifiutate dalla Chiesa come vie proibite. Già il dubbio è peccato…La completa mancanza di limpidezza psicologica nel prete – tradita dallo sguardo – è una manifestazione conseguente alla decadence – se si osservano le donne isteriche, o anche, per altro aspetto, i bambini di costituzione rachitica, si potrà notare con quanta regolarità la falsità istintiva, il gusto di mentire per mentire, l’incapacità di uno sguardo e di un passo diritto siano espressione di decadence.
“Fede” vuole dire non voler sapere ciò che è vero. Il pietista, il prete di ambo i sessi, è falso perchè è malato: il suo istinto esige che la verità non si affermi in alcun punto. “Ciò che è malato è buono; ciò che deriva dalla pienezza, dall’esuberanza, dalla potenza, è cattivo: così sente il credente”.
Le morti di martiri, sia detto per inciso, sono state nella storia una grande sciagura: esse seducevano. La conclusione di tutti gli idioti, ivi compresi femmine e popolo, che abbia importanza quella causa per la quale qualcuno affronta la morte (o che, come il primo cristianesimo, genera addirittura epidemie di desideri di morte – questa conclusione è divenuta un’indicibile remora per l’indagine, per lo spirito d’indagine e di prudenza. I martiri danneggiarono la verità…
Fa differenza per il valore di una causa il fatto che qualcuna per essa rinunci alla vita?…
Nella storia del mondo la stupidità di tutti i persecutori fu proprio questa: essi dettero alla causa avversaria l’apparenza di una rispettabilità – le donarono il fascino del martirio…Ancora oggi la femmina si inginocchia davanti ad un errore, perchè le hanno detto che per esso qualcuno morì sulla croce. La croce è dunque un argomento?
Sogni di sangue scrissero sulla via che percorrevano e la loro stoltezza insegnò che con il sangue si proverebbe la verità. Ma il sangue è il peggior testimone della verità; il sangue avvelena anche la più pura dottrina in delirio e odio dei cuori.
E quand’anche uno attraversasse il fuoco per la propria dottrina – che cosa dimostra ciò! Vero è piuttosto che dal proprio rogo viene la propria dottrina.
Il cristiano e l’anarchico: entrambi decadents, entrambi incapaci di agire altrimenti che disgregando, avvelenando, intristendo, succhiando sangue, entrambi istinto di odio mortale contro tutto ciò che consiste, che è imponente, che ha durata, che promette avvenire nella vita.
Il cristianesimo fu il vampiro dell’impero romano – nel giro di una notte esso ha disfatto l’immensa impresa dei Romani, di conquistare il terreno per una grande civiltà che ha durata. Ancora non è chiaro? L’impero romano che noi conosciamo…questa ammirevolissima opera d’arte di grande stile, era un inizio, la sua struttura era calcolata per misurarsi coi millenni...Quell’organizzazione era saldo quanto basta per sopportare cattivi imperatori: la casualità delle persone non può avere alcun peso in cose del genere – primo principio di ogni architettura. Essa non era però solida abbastanza per la più corrotta specie di corruzione, per il cristiano…Quest’occulto groviglio di vermi, che in mezzo a notte, nebbia e ambiguità si avvicinò furtivamente ad ogni individuo e da ognuno succhiò la serietà per le cose vere, l’istinto in genere per le realtà, quest’accozzaglia vile, effeminata e sdolcinata ha, passo su passo, estraniato le “anime” da quella costruzione immensa – quelle nature preziose, virilmente nobili, che nella causa di Roma ravvisavano la propria causa, la propria serietà, il proprio orgoglio. La furtività dei bigotti, la clandestinità da conventicola, torbidi concetti come inferno, come sacrificio dell’innocente, come unio mystica nel bere sangue; soprattutto il fuoco, lentamente attizzato, della vendetta, della vendetta dei Ciandala – questo signoreggiò Roma.


L’anticristo, Friedrich Nietzsche

Fuga dalla libertà, Erich Fromm, 1941

La libertà dell’uomo – ovvero l’espressione più ampia possibile di tutte le facoltà umane – fino al Medioevo era limitata da ostacoli esterni (Stato Assoluto, Chiesa).
Nel mondo moderno, sancita formalmente dalle Costituzioni di tutte le Democrazie che sono nate man mano che si sviluppa il Capitalismo, la libertà viene invece minacciata e ostacolata da limiti e pressioni che sono tutti interni all’uomo.

Non perché la libertà dell’uomo sia impossibile da realizzare, ma perché il sistema in cui viviamo – capitalismo avanzato dentro democrazia formale – è strutturalmente anti-umano.

Cioè: si fonda su basi che non tengono conto dello sviluppo della capacità umane, che vengono utilizzate tutte per qualcosa di extra-umano, come l’Accumulo di Capitale e l’Autogenesi del Sistema.

Quindi, in linea teorica, più siamo integrati nella società e più rischiamo di perdere di vista la nostra umanità.

I ricchi capitalisti, gli uomini di potere, si dice in giro, sono tutti dei grandi nevrotici.

Conoscere la Genealogia

Per capire il mondo in cui viviamo non possiamo prescindere dalla sua genealogia, dalla sua storia.

Il cosiddetto “uomo moderno”, rispetto all’uomo del Medioevo e dell’Antichità, è principalmente Uomo Individuo. E l’individualismo è stato prodotto dalla Modernità.

Nel Medioevo, per esempio, l’uomo faceva parte di corporazioni, ceti sociali, classi e gruppi da cui apparteneva fin dalla nascita. Non c’era possibilità di cambiare la propria condizione, con le proprie forze. La Libertà – come la intendiamo noi – era un concetto sconosciuto. Il sistema era sorretto dalle Autorità Esterne – Stato e Chiesa per esempio – che limitavano la libertà personale e curavano l’equilibrio della società.

Fromm individua come punto di svolta – Tra Mondo Antico e Mondo Moderno – l’etica sviluppata dal Cristianesimo Protestante di Lutero e Calvino.

Protestantesimo e Capitalismo

Sedicesimo secolo. Il mondo sta cambiando. Il commercio – finora  attività per ebrei e altri emarginati – diventa man mano più importante. L’economia si fa più dinamica. Il denaro è uno strumento di scambio fenomenale e viene utilizzato sempre più spesso. Basta proprietari terrieri, basta clero e nobili che campano di rendita, hanno fatto il loro tempo. Con la scoperta dell’America e le prime innovazioni tecnologiche, spuntano nuovi spazi in cui fare affari. Si arricchiscono persone, se ne impoveriscono altre, si creano nuovi ceti sociali. Tutto sembra in movimento. Il mondo medievale – che sembrava immutabile – non regge il colpo. È destinato a crollare.

Ogni crollo provoca le sue vittime. Ogni cambiamento provoca angoscia, paura, ansia.

Le dottrine protestanti di Lutero e Calvino, in aperto contrasto con le gerarchie ecclesiastiche di Roma dal punto di vista politico e teologico, si fanno portavoce della voglia di cambiamento e di libertà diffusa tra il popolo e i ceti più dinamici ma – annota Fromm – esprimono anche il disagio della “classe media” nei confronti di questo mondo che sta cambiando così velocemente ed in cui è difficile orientarsi, in cui le vecchie regole sociali non valgono più e l’uomo si trova solo, confuso e sperduto davanti al Grande Rivolgimento Storico.

Lutero e Calvino, a livello strettamente teologico, sembrano dare forma a una condizione psicologica e sociale carica di fermenti ma anche di angoscia, paura, ansia.

Individualismo e nichilismo
intrecciati fin dall’inizio come gemelli siamesi

Per Lutero e Calvino il rapporto tra Uomo e Dio è individuale.

Non c’è più il Clero che fa da mediatore tra Dio e L’uomo, che si sobbarca lo sforzo e la responsabilità del rapporto con Dio.
Il singolo uomo deve confrontarsi personalmente con Dio.

L’individualismo, in campo religioso, nasce così.

Uno dei tratti distintivi di Luteranesimo e Calvinismo, però, è l’assoluta insignificanza dell’uomo rispetto a Dio. E il suo dovere è umiliarsi, annullarsi.

Ogni suo pensiero, parola, azione, non vale niente davanti all’immensità di Dio.

Dio ha già fissato i predestinati al Paradiso e all’Inferno, prima della loro nascita.  L’uomo può fare qualunque cosa, durante la sua vita, ma non cambierà mai il suo destino.

La volontà di Dio è imperscrutabile. E l’uomo deve solo accettarla. E avere fede. Fede cieca, perchè i suoi occhi, i suoi sensi, il suo intelletto, non sono niente che abbia valore davanti a Dio.

L’uomo è niente, per Lutero e Calvino, e la sua vita serve soltanto per adorare Dio.

Individualismo e nichilismo, quindi, nascono intrecciati, come gemelli siamesi.

Iperattività e tenersi-sempre-impegnati,
più si è soli e disperati e più si è “attivi”

L’uomo è niente, e Dio ha già stabilito tutto.
L’uomo è niente ed è messo davanti a Dio che ha già stabilito tutto.
L’uomo è niente. Ed è da solo.

Il senso di nullità e l’isolamento provocano angoscia, paura, ansia.

Qual è stato l’effetto?
La rassegnazione fatalistica? L’accidia pessimista? Tutt’altro.

Come afferma Max Weber, questa nuova condizione umana fissata dal protestantesimo luterano e calvinista ha provocato un’iperattività e una frenesia operativa che ha contribuito allo sviluppo del capitalismo, basato appunto sull’iniziativa privata, sull’egoismo e sugli sforzi e sacrifici del singolo.

Tutto è stabilito da Dio, l’uomo è una nullità, e quindi diamoci tutti da fare. Teniamoci impegnati tutto il tempo per non pensare alla nostra condizione umana.
Diamoci da fare, impegniamoci dentro questo mercato e questo capitalismo che sta nascendo ora.
Se avremo successo, fama e fortuna, forse è un segno che il nostro Destino è buono.
Se non avremo successo, allora vorrà dire che siamo destinati all’Inferno.

Che abbiamo da perdere? Almeno occupiamo in questo modo questa vita miserabile. Almeno così non pensiamo alla nostra lancinante condizione umana. Che abbiamo da perdere?

L’umanità – che non vale niente – si sacrifica per l’inumanità

Ecco un paradosso della Storia. Uno dei tanti.

Mentre la “mondana” Chiesa Apostolica Romana ha incentivato il disimpegno e la pigrizia, rappresentando la cifra del Medioevo, epoca stazionaria e conservatrice, il Luteranesimo e il Calvinismo – dottrine “ascetiche” e “integraliste” – hanno incentivato il superlavoro, l’iperattività nevrotica e l’importanza dei successi mondani anche per “motivazioni religiose”, rappresentando lo “spirito” del neonato capitalismo e della predominanza delle logiche di mercato.

Se non ci fossero state queste dottrine religiose, che hanno coinvolto tanti strati della popolazione ma soprattutto la numerosissima “classe media”, il capitalismo non avrebbe avuto la forza propulsiva che l’ha condotto a dominare il mondo.

E, come scrive Fromm, Luteranesimo e Calvinismo sono state – involontariamente – una sorta di preparazione psicologica dell’uomo moderno al capitalismo avanzato del ventesimo secolo e (ora si può dire) del terzo millennio.

Hanno creato il culto del “lavoro”, infatti. Il mito del “successo mondano” e della “popolarità” come balsamo contro la propria nullità umana.

Hanno prodotto questo atteggiamento di “ossessione” e di “senso del dovere” a favore di enti extraumani, come – di volta in volta – “Dio”, “Il Mercato”, “Il lavoro”, etc.

La propria umanità non vale niente, meglio “spenderla” tutta per qualcosa di più grande e giusto di noi. Che è grande, ne abbiamo la prova. Che è giusto, no. Ma che importa? Chi siamo noi per giudicare? Bisogna avere Fede, e mettersi al lavoro.

Tutte le energie dell’uomo, così, sono impegnate per questi enti extraumani. Tutti i pensieri, le parole, le azioni, sono influenzati da questa “ossessione” e “senso del dovere” che agiscono come pressioni e imposizioni interne, interiorizzate.

Scrive Fromm: Nel medioevo c’era lo Stato e la Chiesa, a limitare la libertà umana. Ora c’è la Coscienza.

Dio o Mercato fa lo stesso,
siamo sempre Nullità che devono Credere e Umiliarsi

Capitalismo avanzato.

Monopoli, oligopoli, multinazionali. Tutto il sistema della grande azienda, con i “capi” che divengono entità astratte, e i lavoratori, i dirigenti, i quadri e la manovalanza che divengono soltanto cifre, ingranaggi di un gigantesco meccanismo che tu – misero piccolo lavoratore insulso, nullità il cui unico dovere è umiliarsi e credere ciecamente – non puoi mai arrivare a comprendere.

Questo mondo così gigantesco, ciclopico, spersonalizzato, alienato. Questo Mercato che nessuno capisce, ma che ci contiene tutti ed entro cui viviamo tutti le nostre vite. Disumanità fatta sistema economico.

Mettiamoci pure – ora, nel 2013 – la finanziarizzazione dell’economia, le banche e la Borsa, tutto che diventa ancora più virtuale e irreale, e sempre più complicato e incomprensibile, ed ecco che il quadro è compiuto.

La sensazione dell’uomo contemporaneo davanti al Mercato, al Mercato del Lavoro, al capitalismo finanziario, la grande azienda e la globalizzazione, è la stessa provata dall’uomo luterano e calvinista davanti a Dio.

L’ansia, la disperazione, l’irrazionalità, l’insignificanza e il senso di isolamento è lo stesso.

Abbiamo radicati, inoltre, dopo cinquecento anni di capitalismo ed etica protestante, una gigantesca “Coscienza” che limita la nostra libertà e ci rende schiavi di questa “ossessione” e “senso del dovere” che – ricordiamolo – deriva dalla concezione dell’uomo come nullità.

Umanità Sado Maso

L’atteggiamento rispetto al Capitalismo e rispetto al Dio protestante, scrive Fromm, va spiegato con i concetti di sadismo e masochismo, in tutte le sue varianti.

Questi non sono altro che “meccanismi di fuga” dal senso di insignificanza, impotenza e isolamento dell’uomo moderno, caricato da un dovere-essere-individuo che non riesce a sopportare, incapace di portare sulle proprie spalle tutto il peso della responsabilità di essere individuo libero, costretto a scegliere.

Ricordiamo inoltre che la “fuga” non è mai razionale, ma irrazionale. Non è conscia, ma inconscia. Siamo nel campo delle nevrosi. Non si parla mai di “motivi”, quelli afferiscono ad un contesto razionale. Qui si va per paradossi e opposizioni. Spesso una fenomeno è un segnale dell’esistenza del suo contrario.

Sadismo e masochismo sono due meccanismi di fuga dall’ “io individuale”. Sono tentativi di “disfarsi del proprio io”. Perdersi.

In entrambi i casi si cerca un rapporto di “simbiosi” con l’Altro, un “legame” che fa perdere la propria “integrità individuale”.

Questo è palese per il masochista. Nella sua volontà a farsi dominare, si nota tutto lo sforzo per non-essere-più-individuo, per lasciare ad un’entità “altra” – persona, istituzione, autorità, ideale – tutta la responsabilità dello scegliere, del fare, del pensare.

Per il sadico è la stessa cosa, anche se passa per percorsi diversi. La “volontà di dominio” dell’Altro – scrive Fromm – denota anch’essa una tensione verso un legame simbiotico, una ricerca ossessiva di conferme, e deriva anch’essa dall’ansia, dal senso di impotenza, insignificanza e isolamento.

Il vero potere, dice Fromm, è “capacità”. Il potere non ha bisogno di conferme, non ha bisogno di dominare l’Altro per avere queste conferme. La volontà di dominio non è altro che una conseguenza di una debolezza radicata. È la “perversione della capacità”.

Democrazia o totalitarismo fa lo stesso,
siamo sempre alienati e irrazionali 

A livello collettivo, i “meccanismi di fuga dalla libertà” – di natura sadomasochistica – sono l’assoggettamento ad un’autorità esterna (nel caso del fascismo per esempio) e il conformismo ossessivo (nel caso della democrazia occidentale).

Si fugge dalla libertà, e si diventa automi, in altre parole, sia negli stati totalitari sia negli stati democratici.

Entrambi i meccanismi di fuga non sono altro che nevrosi collettive. E sono proprie dell’uomo che non sa affrontare la libertà, che non riesce – cioè – a vivere in modo da sviluppare liberamente tutte le proprie facoltà umane: sensuali, emotive e mentali.

Fascismo e capitalismo alienante, è bene ricordare, sono stati resi possibili da sentimenti e disposizioni individuali e collettivi, moti psicologici all’interno delle singole persone.
La colpa non è di qualche dittatore o uomo di potere, di qualche singolo pazzo o banda di criminali. Loro sfruttano semplicemente materiale già esistente nell’inconscio collettivo.

Siamo tutti complici, nel nostro intimo, di queste catastrofi umanitarie.

Il problema è che, visto che il sistema in cui viviamo si è sviluppato grazie a queste dinamiche nevrotiche, questa alienazione interiore può produrre accettazione e integrazione sociale, successo, popolarità.
In questo modo l’alienazione può diventare istituzione, e ritrovare l’umanità – a livello individuale e collettivo – diventa sempre più difficile.

Ma – viene naturale chiedersi – a cosa serve la mia umanità, se poi non riesco a integrarmi? Se sono un emarginato?
Non è meglio forse “spendermi” al meglio, “vendermi” del tutto, “essere” così come vuole il Mercato?
Chi sono io, per giudicare il Mercato? Che diritti ho? Io sono solo un piccolo miserabile uomo, una nullità insignificante il cui dovere è solo umiliarsi davanti al Mercato e credere ciecamente il Lui.
Ecco il punto. Umiliarsi e Credere.
Se voglio fare successo, devo mettermi bene in testa queste due parole.
D’altronde, il mio Individualismo – come nel Protestantesimo, ma senza Dio – il mio individualismo è solo un riflesso della mio essere Nullità.
La Fede ci vuole, per fare strada nel Mercato, nel Capitalismo Avanzato.
Ci vuole Fede, e basta.
Meglio lasciar perdere i miei sensi e il mio intelletto. Non valgono niente davanti al Mercato. Io stesso non sono niente davanti all’Enormità del Mercato.

BRANI DA “FUGA DALLA LIBERTA’”

EMOZIONI E CIVILTA’

Al centro del suo sistema una di queste soppressioni: cioè la soppressione della sessualità.
Benché io creda che lo scoraggiamento del piacere sessuale non sia l’unica importante soppressione di reazioni spontanee, ma solo una tra le tante, è certo che la sua importanza non va sottovalutata. I suoi effetti sono evidenti nei casi di 
inibizioni sessuali, ed anche in quelli in cui la sessualità assume un carattere ossessivo e viene consumata come un liquore o una droga, che non ha alcun gusto particolare, ma consente di dimenticare se stessi.
A prescindere da questo o quell’altro particolare effetto, la soppressione dei desideri sessualia causa della loro intensità, non solo ha ripercussioni nella sfera sessuale, ma indebolisce anche il coraggio della persona di esprimersi spontaneamente in tutte le altr
sfere.
Nella nostra società le emozioni in generale vengono scoraggiate. Benché senza dubbio il pensiero creativo – come ogni altra attività creativa – sia inseparabilmente legato ad emozioni, è diventato un ideale pensare e vivere senza emozioni.
Essere «emotivo» è diventato sinonimo di instabile e squilibrato. Nell’accettare questa regola, l’individuo si è molto indebolito; il suo pensiero si è impoverito e appiattito.
D’altro canto, le emozioni, non potendo essere completamente eliminate, debbono avere un’esistenza totalmente separata dall’aspetto intellettuale della personalità; il risultato è il sentimentalismo a buon mercato e insincero con cui i film e le canzonette nutrono milioni di consumatori emotivamente affamati.

NOI E LA MORTE

C’è un’emozione vietata su cui vorrei particolarmente soffermarmi, perché la sua soppressione incide profondamente nelle radici della personalità: il senso della tragedia. Come abbiamo visto in un altro capitolo, la coscienza della morte e dell’aspetto tragico della vita, vaga o chiara che sia, è una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo. Ogni civiltà ha un suo modo di affrontare il problema della morte. Nelle società in cui il processo di individuazione è ancora all’inizio, la fine dell’esistenza individuale non è un gran problema, poiché la stessa esperienza dell’esistenza individuale è meno sviluppata. La morte non è ancora concepita come fondamentalmente diversa dalla vita. Le civiltà in cui troviamo uno sviluppo più alto dell’individuazione hanno trattato la morte secondo la loro struttura sociale e psicologica.
 I greci mettevano tutto l’accento sulla vita e rappresentavano la morte come una vaga e triste continuazione della vita.
 Gli egizianifondavano le loro speranze sulla fede nell’indistruttibilità del corpo umano, per lo meno del corpo di coloro il cui potere durante la vita era indistruttibile.
 Gli ebrei ammettevano il fatto della morte realisticamente, e riuscivano a conciliarsi con l’idea della distruzione della vita individuale grazie alla visione di uno stato di felicità e di giustizia che sarebbe stato alla fine raggiunto dall’umanità in questo mondo.
 Il cristianesimo ha reso la morte irreale, e ha cercato di confortare l’individuo infelice con le promesse di una vita oltretomba.
 La nostra epoca si limita a negare la morte, e con essa un aspetto fondamentale della vita. Invece di lasciare che la coscienza della morte e del dolore diventino uno dei più forti incentivi alla vita -la base della solidarietà umana e un’esperienza senza la quale la gioia e l’entusiasmo mancano di intensità e di profondità – l’individuo viene costretto a reprimerla. Ma, come sempre succede nella repressione, gli elementi repressi non cessano di esistere per il solo fatto di essere stati eliminati dalla vista. 
Così la paura della morte vive tra noi un’esistenza illegittima.Resta viva nonostante il tentativo di negarla, ma la repressione la rende sterile.
E’ una delle fonti della piattezza di altre esperienze, dell’inquietudine che pervade la vita, e può spiegare, direi, la sproporzionata somma di denaro che questa nazione paga per i funerali.

BAMBINI

E’ importante rendersi conto di quanto la nostra civiltà favorisca questa 
tendenza al conformismo (…). La soppressione dei sentimenti spontanei, e onseguentemente dello sviluppo di un’individualità genuina, comincia prestissimo, si può dire con la primissima educazione del bambino. Con ciò non si vuole dire che l’educazione debba portare inevitabilmente alla soppressione della spontaneità, dato che il vero fine dell’educazione è di promuovere l’indipendenza interiore e l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità.
Le restrizioni che una educazione di questo tipo può dover imporre al bambino che cresce sono soltanto misure transitorie, che in realtà appoggiano il processo di sviluppo e di espansione.

Nella nostra civiltà, tuttavia, l’educazione troppo spesso produce l’eliminazione della spontaneità e la sostituzione agli atti psichici originali di sentimenti, pensieri e desideri sovraimpressi. (Per originale non intendo, ripeto, che un’idea non sia stata pensata prima da qualcun altro, ma che abbia origine nell’individuo, che sia il frutto della sua attività e che in questo senso sia il suo pensiero).
Volendo scegliere un esempio un po’ arbitrariamente, una delle prime soppressioni di sentimenti è quella che riguarda l’ostilità e l’antipatia. La maggior parte dei bambini prova sentimenti di ostilità e di ribellione per effetto dei loro conflitti con un mondo circostante, che tende a bloccare la loro espansività e a cui, come parte più debole, debbono di solito arrendersi. Uno dei fini essenziali del processo educativo è quello di eliminare questa reazione antagonistica. I metodi sono vari; essi vanno dalle minacce e dalle punizioni, che spaventano i bambini, ai metodi più sottili dell’allettamento e delle «spiegazioni», che confondono i bambini e li inducono a rinunciare alla loro ostilità.

Il bambino comincia col rinunciare all’espressione del suo sentimento e alla fine rinuncia al sentimento stesso. Oltre a questo, gli viene insegnato a sopprimere la consapevolezza dell’ostilità e dell’insincerità degli altri; talvolta non è tanto facile, dato che i bambini hanno la capacità di notare negli altri questi tratti negativi senza farsi tanto facilmente ingannare, come gli adulti, dalle parole
Sono ancora capaci di trovare antipatica una persona «per nessuna buona ragione»: tranne l’ottima ragione che essi avvertono l’ostilità o l’insincerità che emana da questa persona. Questa reazione ben presto viene scoraggiata; non occorre molto tempo perché il bambino raggiunga la «maturità» dell’adulto medio, e perda la capacità di distinguere tra una persona per bene e un mascalzone, qualora quest’ultimo non si sia rivelato con qualche atto palese. D’altro canto, si insegna ben presto al bambino ad avere sentimenti che non sono affatto «suoi»; in particolare gli viene insegnato a trovar simpatiche le persone, ad essere acriticamente amabile con loro, e
 a sorridere.
Dove non è arrivata l’educazione, arriva di solito più tardi la pressione sociale. 
Se uno non sorride, si dice che non ha una «personalità gradevole»; e bisogna avere una personalità gradevole se si vuol vendere i propri servizi, non importa se come cameriera, come commesso, o come medico. Solo quelli che stanno al fondo della piramide sociale -quelli che non vendono altro che la loro fatica fisica – e coloro che stanno al vertice, non hanno bisogno di essere particolarmente «gradevoli».
La cordialità, il buon umore e tutto quello che si ritiene che un sorriso esprima, diventano reazioni automatiche che si accendono o si spengono come un interruttore elettrico. Naturalmente in molti casi la persona si rende conto di star facendo nient’altro che un gesto; nella maggior parte dei casi, però, si perde questa consapevolezza e di conseguenza la capacità di distinguere tra lo pseudosentimento e la cordialità spontanea. Non è soltanto l’ostilità che viene direttamente repressa, né solo la cordialità che viene uccisa sovrapponendole la sua contraffazione.
Sin dall’inizio dell’educazione il pensiero originale viene scoraggiato, e nei cervelli degli individui vengono inculcati pensieri già bell’e confezionati. E’ abbastanza facile osservare come questo venga ottenuto nel caso dei bambini piccoli. Essi sono pieni di curiosità per il mondo, vogliono afferrarlo fisicamente e intellettualmente. Vogliono sapere la verità, dato che 
è il modo più sicuro per orientarsi in un mondo strano e potente. Invece non vengono presi sul serio, e poco importa se questo atteggiamento assuma la forma dell’aperta mancanza di rispetto oppure quella della velata degnazione che si usa verso tutti quelli che non hanno potere (come i bambini, i vecchi o gli ammalati).
Benché già per se stesso questo trattamento scoraggi notevolmente il pensiero indipendente, c’è uno svantaggio anche maggiore, l’insincerità spesso non intenzionale -che è tipica del comportamento dell’adulto medio verso il bambino. Questa insincerità consiste almeno in parte nell’immagine fittizia del mondo che si dà al bambino.

CHI SIAMO, DOVE SIAMO, COSA VOGLIAMO

I giornali ci informano sui banali pensieri o sulle preferenze gastronomiche di una debuttante con lo stesso spazio e con la stessa serietà che dedicano al resoconto di avvenimenti di importanza scientifica o artistica. A causa di tutto ciò cessiamo di avere dei veri rapporti con quel che sentiamo. Non ci emozioniamo più, i nostri sentimenti e il nostro giudizio critico si bloccano, e alla fine il nostro atteggiamento di fronte agli avvenimenti del mondo assume un carattere di piattezza e indifferenza.
 In nome della «libertà» la vita perde l’ossatura, finisce per esser composta di tanti pezzetti, ognuno separato dagli altri, e resta priva di senso nel suo insieme. L’individuo vien lasciato solo con questi pezzi, come un bambino con un gioco ad incastri; la differenza, però, è che il bambino sa cos’è una casa, e perciò è in grado di riconoscere le parti della casa nei minuscoli pezzi con cui sta giocando, mentre l’adulto non afferra il significato del «tutto», di cui gli capitano in mano i pezzi. E’ confuso e spaventato, e continua a fissare i suoi pezzetti privi di significato.
 Quel che si è detto a proposito della mancanza di «originalità» nel sentimento e nel pensiero vale anche per la volontà.
In questo caso è più difficile rendersene conto; l’uomo moderno, semmai, pare avere sin troppi desideri, e il suo solo problema sembra quello che, pur sapendo ciò che vuole, non può averlo. 
Tutte le nostre energie vengono spese allo scopo di ottenere quello che desideriamo, e la maggior parte degli individui non mettono mai in discussione il presupposto di quest’attività, il sapere, cioè, quel che davvero vogliono. Non si soffermano mai a riflettere se i fini che stanno perseguendo siano proprio quelli che vogliono loro: nella scuola vogliono avere buoni voti, da adulti vogliono avere sempre più successo, guadagnare più denaro, avere più prestigio, comprare un’automobile più bella, andare in giro, e così via.
Ma se si fermano per un momento a pensare in mezzo a tutta questa frenetica attività, può sorgergli alla mente questa domanda: «Se ottengo questo nuovo posto, se prendo questa automobile più bella, se riesco a fare questo viaggio, che cosa succede? A che serve tutto questo? Sono veramente io che voglio queste cose? Non sto per caso inseguendo una meta che dovrebbe farmi felice e che mi sfugge non appena la raggiungo?». Queste domande, quando sorgono, fanno paura, perché mettono in dubbio la base stessa su cui poggia l’intera attività dell’individuo: il fatto di sapere che cosa vuole.

Perciò le persone tendono a liberarsi il più presto possibile di questi pensieri che turbano. Credono che queste domande tormentose siano sorte perché si sentivano stanche o depresse: e continuano a perseguire i fini che ritengono propri. Ma tutto questo rivela una vaga intuizione della verità: la verità che l’uomo moderno vive nell’illusione di sapere ciò che vuole, mentre in realtà vuole quel che ci si aspetta che voglia.

PERDITA D’IDENTITA’ E CONFORMISMO

Essendoci liberati dalle vecchie forme palesi di autorità, non ci rendiamo conto di esser caduti preda di un nuovo genere di autorità. 
Siamo diventati automi che vivono nell’illusione di essere individui autonomi. Questa illusione aiuta l’individuo a restare inconsapevole della propria insicurezza, ma questo è tutto l’aiuto che può dare una simile illusione. Nella sostanza l’io dell’individuo è indebolito, sicché si sente impotente ed estremamente insicuro. Vive in un mondo con il quale non è più in autentico rapporto, in cui tutti e tutto sono ormai strumentalizzati, in cui è diventato una parte della macchina che le sue mani hanno costruito. Pensa, sente e vuole quel che crede di esser tenuto a pensare, sentire e volere; e proprio in questo processo perde il suo io, sul quale deve esser costruita tutta l’autentica sicurezza di un individuo libero. La perdita dell’io ha aumentato la necessità di conformarsi, perché produce un grave dubbio circa la propria identità. Se io non sono altro che ciò che credo di essere tenuto ad essere, chi sono «io»? Abbiamo visto come il dubbio sul proprio essere sia cominciato con il crollo dell’ordine medioevale, nel quale l’individuo aveva occupato un posto indiscusso in un ordine fisso. L’identità dell’individuo è uno dei massimi problemi della filosofia moderna a partire da Cartesio. Oggi diamo per scontato di essere «noi», tuttavia il dubbio su noi stessi esiste ancora, o addirittura è aumentato. Nei suoi drammi Pirandello ha espresso efficacemente questo sentimento dell’uomo moderno. Egli parte dalla domanda: chi sono io? Quale prova ho della mia identità, a parte la continuità del mio essere fisico? La sua risposta non è, come in Cartesio, l’affermazione dell’io individuale, ma la sua negazione: non ho alcuna identità, non c’è alcun io tranne quello che è il riflesso di quel che gli altri pretendono che io sia: io sono «come tu mi vuoi».

Perciò questa perdita dell’identità rende ancor più imperativo il bisogno di conformarsi; il che vuol dire che si può essere sicuri di se stessi solo se non si deludono le aspettative degli altri. Se non siamo adeguati a questa immagine, non solo rischiamo la disapprovazione e un maggiore isolamento, ma rischiamo di perdere l’identità della nostra personalità, il che metterebbe in pericolo il nostro equilibrio mentale. Dal conformarsi alle aspettative degli altri, dal non essere diversi, questi dubbi sulla propria identità vengono messi a tacere; e così si conquista una certa sicurezza.

Ma il prezzo che si paga è alto. Rinunciare alla spontaneità e all’individualità significa soffocare la vita. Dal punto di vista psicologico l’automa, pur essendo vivo biologicamente, è morto come sentimenti e pensieri. Mentre fa i gesti del vivere, la sua vita gli scorre tra le mani come sabbia. Dietro alla facciata della soddisfazione e dell’ottimismo, l’uomo moderno è profondamente infelice; anzi, è sull’orlo della disperazione.

Si aggrappa disperatamente all’idea dell’individualità; vuole essere «diverso», e la sua maggior lode è dire che qualcosa «è diverso». Ci vien segnalato il nome dell’impiegato delle ferrovie dal quale acquistiamo i biglietti; le borsette, le carte da gioco e le radio portatili vengono «personalizzate» stampandoci su le iniziali del proprietario. Tutto ciò sta ad indicare la fame di «diversità», e tuttavia questi sono quasi gli ultimi segni rimasti dell’individualità.

L’uomo moderno è affamato di vita.
 Ma poiché, essendo un automa, non riesce a vivere la vita come attività spontanea, prende come suo surrogato qualsiasi sorta di emozione e brivido: il brivido del bere, degli sport, del vivere vicariamente le emozioni di personaggi irreali dello schermo.  Ma allora che cosa significa la libertà per l’uomo moderno? E’ diventato libero dai vincoli esterni, che gli impedirebbero di fare e di pensare come crede. Vorrebbe esser libero di agire secondo la sua volontà, se sapesse che cosa vuole, pensa e sente; ma non lo sa. Si conforma ad autorità anonime, e adotta una personalità che non è la sua. E più fa così, più impotente si sente, e più è costretto a conformarsi.
Sotto la vernice dell’ottimismo e dell’intraprendenza, l’uomo moderno è sopraffatto da un profondo sentimento di impotenza, che lo porta a guardare le catastrofi incombenti come se fosse paralizzato. Osservate superficialmente, le persone sembrano funzionare abbastanza bene nella vita economica e sociale; tuttavia sarebbe pericoloso trascurare la profonda infelicità che sta dietro questa consolante vernice. Se la vita perde il suo significato perché non viene vissuta, l’uomo diventa disperato. Gli individui non muoiono silenziosamente di fame fisica; e non muoiono silenziosamente nemmeno di fame psichica. Se consideriamo solo i bisogni economici della persona «normale», se non individuiamo la sofferenza inconscia della persona automatizzata, allora non riusciamo a comprendere il pericolo che minaccia la base umana della nostra civiltà: la disposizione ad accettare qualsiasi ideologia e qualsiasi capo, purché prometta emozioni e offra una struttura politica e dei simboli che apparentemente diano significato e ordine alla vita dell’individuo. La disperazione dell’automa umano è un terreno fertile per le mire politiche del fascismo.

SPONTANEITA’

Noi riteniamo che la realizzazione dell’io si compia non solo per mezzo di un atto intellettuale, ma anche mediante la realizzazione della personalità totale dell’uomo, per effetto dell’espressione attiva delle sue possibilità emotive e intellettuali.
Queste possibilità sono presenti in tutti; diventano reali solo nella misura in cui vengono espresse. In altre parole, “la libertà positiva consiste nell’attività spontanea della personalità totale”. Qui ci troviamo di fronte ad uno dei problemi più difficili della psicologia: il problema della spontaneità.
Benché la spontaneità sia un fenomeno relativamente raro nella nostra civiltà, non è che ne siamo completamente privi. Per aiutare a comprendere questo punto, vorrei ricordare al lettore alcuni casi in cui tutti vediamo un barlume di spontaneità. In primo luogo, conosciamo individui che sono -o sono stati spontanei, i cui pensieri, sentimenti e atti sono l’espressione di loro stessi e non di un automa. 
Questi individui ci sono familiari per lo più come artisti. Infatti, l’artista può essere definito un individuo in grado di esprimersi spontaneamente.
 Se questa è la definizione dell’artista – Balzac lo definiva proprio in questo modo – allora certi filosofi e scienziati devono anch’essi venir chiamati artisti, mentre altri che passano per tali sono tanto lontani dall’artista quanto un vecchio fotografo può esserlo da un pittore creativo. Ci sono altri individui i quali, pur non avendo la capacità -o forse semplicemente la preparazione -per esprimersi in un mezzo oggettivo come fa l’artista, possiedono la stessa spontaneità. Ma la posizione dell’artista è vulnerabile, perché in realtà si rispetta l’individualità e la spontaneità del solo artista riuscito; se non riesce a vendere la sua arte, egli resta per i suoi contemporanei un eccentrico, un nevrotico. In questo senso l’artista sta in una posizione simile a quella che ha sempre contraddistinto nella storia il rivoluzionario. 
Il rivoluzionario vittorioso è uno statista, il rivoluzionario fallito è un criminale.

Paura delle donne

“(Su Clitemnestra ndr) Il dramma classico, forgiato nell’ambiente ateniese del V secolo, si prospetta come eredità dell’epica e della poesia arcaica misogina (Esiodo e Simonide), con il compito di esorcizzare, tramite vicende spesso cruente e feroci, le paure che da sempre attanagliano l’uomo, in questo caso specifico il timore suscitato dalla donna, in particolare dalla moglie apparentemente devota, repressa e segregata, che si immagina pronta ad esplodere e ribellarsi, rappresenta la prima generalizzazione della letteratura occidentale contro le donne, avendo macchiato con i suoi crimini tutte le spose.
Naturale l’associazione oppositiva con Penelope, simbolo della fedeltà coniugale: infatti, l’una intesse una rete fatale di morte e inganno, l’altra invece fila una tela a garanzia della propria virtù.
In quanto donna, è portatrice di una differenza e di un’inferiorità naturale e sessuale, come sostengono le teorie di Platone e soprattutto di Aristotele, statuale e politica, in quanto regina e xenia, vale a dire straniera greca, spartana, priva della cittadinanza ateniese.

“Nella rete di Clitemnestra”,
dal blog Aliceinwriting

I

Le donne sono una razza nemica….Mascherate da «sesso debole» sono quello forte….
L’uomo è diretto, la donna trasversale. L’uomo è lineare, la donna serpentina. Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco. Lei è insondabile, sfuggente, imprevedibile. Al suo confronto il maschio è un bambino elementare che, a parità di condizioni, lei si fa su come vuole. E se, nonostante tutto, si trova in difficoltà, allora ci sono le lacrime, eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto femminile.

La donna è baccante, orgiastica, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola, nessun principio può valere più di un istinto vitale. E quindi totalmente inaffidabile. Per questo, per secoli o millenni, l’uomo ha cercato di irreggimentarla, di circoscriverla, di limitarla, perché nessuna società regolata può basarsi sul caso femminile.

Sul sesso hanno fondato il loro potere mettendoci dalla parte della domanda, anche se la cosa, a ben vedere, interessa e piace molto più a lei che a lui. Il suo godimento — quando le cose funzionano — è totale, il nostro solo settoriale, al limite mentale («Hanno sempre da guadagnarci con quella loro bocca pelosa» scrive Sartre).

Ma adesso che si sono finalmente «liberate» sono diventate davvero insopportabili. Sono micragnose, burocratiche, causidiche su ogni loro preteso diritto. Han perso, per qualche carrieruccia da segretaria, ogni femminilità, ogni dolcezza, ogni istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia, e spesso anche dei figli quando si degnano ancora di farli.

II

Considero la donna, meglio: la femmina, molto più vitale del maschio. È lei, che procrea, la protagonista del gran gioco della vita (quello reale, non quello virtuale) mentre il maschio è un fuoco malinconico e transeunte animato da un oscuro istinto di morte. La donna è la vita, l’uomo è la legge, la regola, il rigore, la morte (il contrasto tra Antigone e Creonte in Sofocle). Non a caso nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, quando l’Essere primigenio, dopo la caduta, si scinde in due la Donna viene definita “la Vita” o “la Vivente” mentre l’Uomo è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”.

È per riempire questo vuoto, per sopperire a questa impotenza procreativa (“l’invidia del pene” è una sciocchezza freudiana), che l’uomo si è inventato di tutto, la letteratura, la filosofia, la scienza, il diritto, il gioco regolato e il gioco di tutti i giochi, la guerra, che però oggi ha perso quasi tutto il suo fascino perché affidata alle macchine e anche perché in campo han voluto entrare pure le stronzette che pretendono di fare i soldati e vogliono fare, con i loro foularini, le corrispondenti di guerra (Ma state a casa, cretine, a fare figli. L’interesse della donna per la guerra è una perversione degli istinti. La donna, che dà la vita, non ha mai amato questo gioco di morte, tipicamente maschile. Ma ormai così è: le più assatanate guerrafondaie di questi ultimi anni sono state la Albright, Emma Bonino e quella pseudodonna e pseudonera di Condoleezza Rice).

Comunque sia è vero che da quando si sono “liberate” si sono appiattite sul maschile,diventandone una parodia, e insieme alla femminilità hanno perso anche il loro fiore più falso e più bello, il pudore, per il quale valeva la pena, appunto, di corteggiarle. Han perso la sapienza delle loro nonne alle quali bastava far intravedere la caviglia. Rivestitevi, sciocchine. All’uomo non interessa la vostra nudità, ma scartocciare, lentamente, la colorata e inquietante caramella anche se, alla fine, c’è sempre la solita, deludente, cosa.

III

Conosco molte trentenni, spesso belle, colte, eleganti (fini no, la ragazza “fine” è scomparsa dall’Occidente) che fan una fatica boia a trovare un partner. Non per una scopata (anche per quella, gli uomini, di fronte all’aggressività femminile, stan diventando tutti finocchi), ma un uomo che dia loro la sicurezza e il senso di protezione di cui hanno bisogno. Consiglio uno stage in Afghanistan. Troveranno degli uomini che le faranno rigar dritto, come meritano e come, nel fondo del cuore, desiderano.

Massimo Fini
(Leggi quiquiqui qui)

L’uomo, che per quanto si vanti e si glori ha sempre avuto paura della donna per quella fenditura da cui nasce la vita e il mistero, è oggi ulteriormente intimorito dall’aggressività di lei. Che non ti appoggia più teneramente la testa sulla spalla e tantomeno ti fa un maglione. Da che mondo è mondo la donna non seduce ma si fa sedurre. Insomma è stata sempre lei a condurre il gioco, ma in modo più malizioso e meno sfacciato. Una donna che si offre spudoratamente fa cadere ogni libido. (..)

Ancora Massimo Fini Sul Fatto Quotidiano

L’uomo, sempre più innamorato di sé, sempre più narciso, si è eccessivamente femminilizzato. Tien cura del proprio corpo come una donna, si depila, si deodora, si cosparge di creme, frequenta, al pari di lei, le beauty farm. Inoltre non ci sono più le occasioni per dimostrare la propria virilità e il proprio coraggio (la donna non ha bisogno di dimostrare coraggio, ce l’ha quando occorre, essendo antropologicamente preparata al parto), non fa più la guerra, non esiste più un orgoglio nazionale, la forza fisica, sostituita dalla tecnica, ha perso ogni importanza, serve al più per svitare i tappi delle bottiglie di acqua minerale o per mettere le valigie sulle reticelle dei treni. Ha perso vitalità. Un uomo-femmina interessa molto poco le donne dal punto di vista sessuale. Tanto vale, per dirla brutalmente con Céline, che “se la divorino tra di loro”.

Le donne sono state finora trattate dagli uomini come uccelli che, dopo aver spiccato il volo da una certa altezza, si sono smarriti abbassandosi fino a loro: come qualcosa di più fine, di più vulnerabile, di più selvaggio, di più singolare, di più dolce, di più spirituale – ma anche come qualcosa che si deve imprigionare affinchè non se ne rivoli via.

Ciò che nella donna incute rispetto e piuttosto spesso timore è la sua natura, che è “più naturale” di quella dell’uomo, la sua genuina rapace astuta duttilità, i suoi artigli di tigre sotto il guanto, la sua ingenuità nell’egoismo, la sua ineducabilità e intima selvatichezza, l’inafferrabilità, vastità, vaghezza dei suoi desideri e delle sue virtù…Ciò che, nonostante ogni paura, ispira pietà per questa bella e pericolosa gatta “donna”, è che essa è più sofferente, più vulnerabile, più bisognosa d’amore ed appare più condannata alla delusione di qualunque altro animale. Paura e pietà: con questi sentimenti l’uomo è stato finora di fronte alla donna, sempre con un piede già nella tragedia che lacera estasiando.

Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche, 1885

Tutto è costruito

Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante.

E ho pensato: “Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa “.

«Io» dice la montagna «sono montagna e non mi muovo.» Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani. E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti? Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe più in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?

Tu montagna. sei tanto più grande dell’uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l’uomo è una bestiolina piccola, sì, che ha però in sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata più fina.
Vide allora l’albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere più comodamente. E poi sentì che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottì; scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestì il legno di cuoio e tra il cuoio e il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato. […]

Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città.

La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Sí ma se mi sapeste dire dov’è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua?

[…] Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sí, da un mondocostruito : case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia.

[…]Ecco: sdraiato, voi buttate all’aria il cappellaccio di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:

«Oh ambizioni degli uomini!» Già. Per esempio, che grida di vittoria perché l’uomo, come quel vostro cappellaccio, s’è messo a volare, a far l’uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L’avete visto? La facilità piú schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioia. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s’arresta; addio uccellino!

«Uomo,» dite voi, sdraiati qua sull’erba, «lascia di volare! Perché vuoi volare? E quando hai volato?» Bravi. Lo dite qua, per ora, questo; perché siete in campagna, sdraiati sull’erba.

[…] Alzatevi, rientrate in città e, appena rientrati, lo intenderete subito perché l’uomo voglia volare. Qua, cari miei, avete veduto l’uccellino vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzioneun altro mondo nel mondo: mondo mani fatturato, combinato, congegnato; mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice.

[…]Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!

Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città!

Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli.

Ci vorrebbe un po’ piú d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti… Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione.Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando vuole, paziente.

Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche sé stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.

[…] Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa?

La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.

Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà.

E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.

Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate soprese.

Ma che belle costruzioni vengono fuori![…]

Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio, proprio e particolare, per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni di derivazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.

Ed ecco intanto, che me n’era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.

Uno, nessuno e centomila, Luigi Pirandello, 1926

Appunti base-base: la civiltà peccato originale dell’uomo

In principio l’uomo impiegava tutto il giorno a cacciare e raccogliere frutti e piante selvatiche. Non c’era tempo per niente che non fosse il lavoro (di caccia e raccolta) necessario per la sussistenza alimentare. Non c’era tempo neanche per il potere e il comando – D’altronde, chi comandi? Comandi di fare cosa? La “società” era naturalmente egualitaria

Poi, tramite la prima invenzione tecnologica: l’agricoltura, l’uomo cominciò a controllare i frutti e le piante che il terreno produceva. Poi con le innovazioni tecnologiche nell’agricoltura, tipo l’aratro, la sua efficacia venne incrementata a dismisura.

Con due effetti:

1) L’uomo ebbe a disposizione più tempo.

2) L’uomo cominciò a produrre un surplus di prodotti della terra. Una quantità di derrate alimentari che dovevano essere conservate e gestite.

Nei villaggi infatti si crearono gruppi di persone che non lavorava la terra ma si occupava di conservare e gestire il surplus di produzione. Il surplus di tempo venne interamente concesso a questo gruppo di persone per permettere loro di gestire il surplus di produzione.

Questi, a tutti gli effetti, si occupavano di “amministrazione” , e gettarono le basi per un modo più “mentale” e meno “fisico” di lavorare e vivere. Ad esempio, appunto per motivi di amministrazione, inventarono la scrittura, con cui riuscivano a gestire e fissare su una superficie durevole quantità prima impensabili di informazioni.

Questi amministratori, che gestivano il prodotto del lavoro di chi lavorava la terra, e che dunque dipendevano materialmente da essi, man mano assunsero un ruolo privilegiato all’interno della comunità. Forse per il tipo di lavoro, meno sfiancante, forse per la quantità di tempo a disposizione, che permise loro di muoversi in modo strategico sul tavolo di gioco del potere, questa classe di amministratori diventò presto la classe dirigente della comunità.

Una classe che, generazione dopo generazione, adottò uno stile di vita migliore rispetto al resto della comunità. Perché, in virtù della loro attività di “amministratori”, avevano accesso a grandi quantità di derrate alimentari, e quindi poterono usufruire di una parte più consistente di queste.

Una classe che possedeva inoltre l’arma della scrittura, uno strumento “magico” e immediatamente “trascendentale”, che portava la parola al di fuori del tempo e della realtà materiale del lavoro nei campi.

Con la scrittura, per via del suo carattere “oltreumano”, era più facile stabilire cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Essa fu alla base dell’istituzionalizzazione della legge e della religione.

Un brano da “Gesù lava più bianco, ovvero Come la Chiesa inventò il marketing”, 2014, Bruno Ballardini, Minimum Fax:

“Oggi, in piena civiltà della scrittura stentiamo a comprendere come potesse essere vissuta la scrittura a quell’epoca (origini del cristianesimo, predicazione di Paolo di Tarso ndr). Scrive Walter j. Ong: ” La scrittura ha trasformato la mente umana più di qualunque altra invenzione. Essa crea ciò che è stato definito un “linguaggio decontestualizzato” o una forma di comunicazione verbale “autonoma”, vale a dire un tipo di discorso che, a differenza di quello orale, non può essere discusso con il suo autore, poichè ha perso il contatto con esso. Le culture orali conoscono un tipo di discorso autonomo che utilizzano in forme rituali fisse, ad esempio nei vaticini o nelle profezie: chi gli dà la voce è considerato solo un tramite e non la fonte. L’Oracolo di Delfi non aveva responsabilità su quello che diceva, poichè i suoi responsi venivano percepiti come la voce di Dio. La scrittura, e ancora di più la stampa, hanno in sè qualcosa di questa facoltà oracolare. Come il vate o il profeta, il libro trasmette un messaggio derivante da una fonte, rappresentata da chi ha effettivamente “parlato” o scritto il libro. L’autore potrebbe essere sfidato se fosse raggiungibile, ma di fatto egli non può essere raggiunto in nessun libro. Non esistono modi diretti di confutare un testo. Anche dopo una confutazione totale e distruttrice, esso dirà ancora esattamente le stesse cose di prima. Questo è uno dei motivi per cui l’espressione il libro dice ha assunto popolarmente lo stesso significato di è vero“. Anticamente i messaggi che si materializzavano dai segni scolpiti sulla pietra nella mente di chi li leggeva riempivano di stupore gli animi delle persone semplici, e gli scribi che operavano questo prodigio erano visti come depositari di straordinari poteri magici poichè erano in grado di far parlare le pietre”.

Legge e religione che, proprio per il loro rapporto con la scrittura, e dunque con l’amministrazione del surplus, furono fin dall’inizio di supporto alla neonata classe dirigente. La loro arma di legittimazione.

Luoghi del potere – quel “potere” che prima non esisteva – diventarono il deposito, il tribunale e il tempio.

Tutto ciò è stato reso possibile dalle innovazioni tecnologiche che portarono al surplus di tempo e produzione.

Ciò portò alla stratificazione sociale e alla gerarchizzazione della società. Ma più del 90% della popolazione restava a lavorare la terra. La civiltà è una ingiustizia di pochissimi portata avanti nei confronti di moltissimi. È il peccato originale.

Liberi, cosmopoliti, deicidi

Un uomo che si rispetti non ha una patria.
Una patria è una colla”

Emil Cioran

L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante,    colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte, ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”

Ugo di San Vittore

Il background ebraico di Freud contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’illuminismo.  La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e di disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada alla sua emancipazione e al suo progresso.

“La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm

Abramo è un uomo anziano, ricco e rispettato da tutti. Abita nella città del potere, la città per eccellenza. Ur-Kasdim. Poi arriva Dio e gli ordina di uscire dalla città e andare nel deserto.
Ovvero: pura follia.
Lasciarsi tutto alle spalle e avventurarsi nell’ignoto, ferirsi, scorticarsi, patire la fame e la sete, esporsi alle intemperie del creato. Ma anche: conoscere il mondo, diventare il primo grande patriarca del monotesmo, capostipite del popolo eletto. “Farò di te un grande popolo e ti benedirò – annuncia Dio – renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”.
L’uscita dalla città nel deserto è il movimento fondante dell’ebraismo. L’inizio di millenni di peregrinazioni, vagabondaggi, fughe e persecuzioni.
Per compiere questo sconvolgente salto nel buio c’è bisogno di una cosa sola. La fiducia. Innanzitutto la “fiducia nel tempo”. Il tempo materiale, prettamente umano, quello che fugge e non torna più, la transitorietà, la precarietà. Perchè, come diceva Heiddeger, “per vivere in modo autentico non si può far altro che prendere coscienza della propria mortalità, del proprie essere mortali”. E nella mortalità si compie la grandezza superomistica della filosofia di Nietzsche. Essere immensi nella clausura della ridicola transitorietà umana. Prenderne coscienza, agire di conseguenza, vivere il tempo per ciò che il tempo è.

L’ebraismo può essere letto anche come una sorta di etica laica. Atea addirittura. Basta sostituire la parola “Uomo” a quella di “Dio” ed il gioco è fatto. Almeno così pare leggendo i libri di Moni Ovadia, teatrante bulgaro residente a Milano, “agnostico dubbioso” ebreo e appassionato di cose ebraiche.

I libri di Ovadia sono saggi o raccolte di storielle ebraiche. Il migliore in assoluto è “Vai in te stesso”, pubblicato nel 2002. Le sue idee sono fortemente influenzate dall’insegnamento del filosofo Haim Baharier.

Sono qui a Milano per cercare di farmi un futuro. Da due mesi ho lasciato la Sicilia dei sogni interrotti e ho raggiunto la capitale economica d’Italia per tentare di riprendere il filo. Sono capitato in stanza con un ragazzo che collabora con Ovadia. Ovviamente ho attinto dalla sua libreria, avvicinandomi ancora di più alla cultura del popolo deicida.

La spinta fondamentale del monoteismo ebraico – il primo e più autentico monoteismo – è verso la scoperto dell’uomo in quanto uomo, al di là di ogni sovrastruttura e dominio di forze esterne.

Ovadia di concentra molto sul concetto di idolatria. Che non è altro che “la forma culturale della tirannia – scrive – L’idolo è il mediatore religioso del potere, con cui i potenti si servono della paura ontologica e dell’angoscia esistenziale dell’uomo”. Un grimaldello subliminale con cui i potenti sfruttano l‘horror vacui dell’essere umano. L’idolo è strumento di controllo. “Quella con l’idolo non è una relazione cognitiva bensì una relazione viscerale e rituale, di sottomissione. E come tale perfettamente funzionale a ogni struttura di potere e ad ogni dominio dell’uomo sull’uomo”. Ma non è solo una faccenda politica, ovvero di “potere”. È soprattutto una trappola mentale, un giogo che inibisce la vera umanità e impedisce l’uomo di scoprire la realtà. Un condizionamento che strozza lo spirito critico, la capacità di osservazione. In altre parole, la libertà.

Dice Ovadia: “La libertà tout court è soprattutto libertà dall’idolatria”. Idolo sono tutte le autorità assolute, sclerotizzate, de-umanizzanti. Il denaro può diventare un idolo, così come l’amore, il potere, il sesso, un partito o un personaggio politico, un leader qualunque, un guru, una donna, un uomo, un’aspirazione, un obiettivo, un valore, eccetera eccetera.

Per questo l’ebraismo, nell’interpretazione di Ovadia, è soprattutto individualismo. O meglio, puramente, umanità.

Per questo il vero peccato originale di Adamo ed Eva è stato la “volontà di acquisire la conoscenza mangiando un frutto”. “Quella criminosa stupidaggine spezzò la condizione edenica – scrive Ovadia – La conoscenza non può essere inghiottita, non può essere comprata, la conoscenza deve essere conquistata attraverso il travaglio dell’interiorità che conduce all’ecce homo”.

E dunque, per essere veramente uomini, bisogna seguire all’unico imperativo morale.
Vai a te stesso
.
“L’unico presupposto per costruire la propria libertà”.

Abramo esce dalla città, esce nel deserto, va a se stesso.
Traghettando, di fatto, l’umanità “dall’era dell’idolatria all’era dell’uomo”.

L’ebraismo, per Ovadia, ha una decisa vocazione “anarchico-libertaria”. L’emblema più lampante è l’istituzione del sabato, dello Shabbat, il riposo senza se e senza ma, a prescindere da ogni costrizione e contingenza esterna. ”La maestà dello Shabbat irradia un insegnamento fondante per il futuro della nostra libertà: la terra appartiene al Santo Benedetto e noi siamo ospiti su di essa, la proprietà è transitoria. Non c’è diritto di possesso, vi è un solo modo per noi di abitare la terra, qualsiasi terra: da stranieri!”.

Libertà, individualismo e – eccoci – cosmopolitismo. Basta dire che in yiddish il concetto di “straniero” e di “residente” si fondono in un unico termine. Gher. Sembra un ossimoro lessicale. Invece è una sintesi perfetta, una dichiarazione di intenti, una concezione dell’esistenza.