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Se la donna non è degradata non c’è piacere

(IMPOTENZA PSICHICA)

Avanzerò l’ipotesi che l’impotenza psichica sia molto più diffusa di quanto non si creda e che, infatti, in una certa misura questo comportamento caratterizzi la vita amorosa dell’uomo civilizzato (…) gli uomini definiti psichicamente frigidi: costoro compiono sempre con successo l’atto sessuale, ma non ne ricavano alcun piacere particolare, e questo fatto è molto più comune di quanto si creda.

Due motivi dell’impotenza psichica: l’intensa fissazione incestuosa dell’infanzia e la frustrazione dovuta alla realtà nella adolescenza. Potrà sembrare non solo sgradevole ma anche paradossale, e purtuttavia si deve dire che per essere veramente liberi in amore si deve superare il rispetto per le donne e venire a patti con l’idea dell’incesto con la madre o con la sorella. Chi si sottoponesse a un serio esame di coscienza riguardo a questa esigenza, scoprirebbe certamente che considera l’atto sessuale fondamentalmente come qualcosa di degradante che insudicia e contamina non solo il corpo ma anche l’anima. L’origine di questa bassa opinione, che egli certamente non vorrà ammettere di possedere, va ricercata nel periodo della sua giovinezza durante la quale la corrente sensuale era già decisamente sviluppata ma il suo appagamento con un oggetto esterno alla famiglia era proibito quanto lo era con un oggetto incestuoso.

L’importanza psichica di un istinto aumenta in proporzione alla sua frustrazione.

I genitali in se stessi non hanno partecipato a quell’aspetto dello sviluppo umano riguardante la bellezza: sono rimasti animali e quindi anche l’amore è rimasto, nella sua essenza, animale come è sempre stato. Gli istinti erotici sono difficili da educare. La loro educazione a volte dà troppo, a volte troppo poco. Il modo in cui la civiltà cerca di trasformarli ha come prezzo una sensibile perdita di piacere, la persistenza degli impulsi inutilizzati può essere individuata nell’attività sessuale sotto forma di non-appagamento.

Potremmo, quindi, essere costretti a riconciliarci con l’idea che è assolutamente impossibile adeguare le esigenze dell’istinto sessuale a quelle della civiltà e che, in conseguenza del suo sviluppo, la razza umana non può evitare la rinuncia e la sofferenza nonché il pericolo di estinguersi in un lontanissimo futuro.

(DEGRADAZIONE DELL’OGGETTO SESSUALE)

Non appena si realizza la condizione di devalorizzazione psichica dell’oggetto sessuale, la sensualità può esprimersi liberamente e si possono sviluppare notevoli capacità sessuali e un alto grado di piacere.

Solo in una minoranza di persone le due correnti dell’affetto e della sensualità si sono perfettamente fuse; l’uomo sente quasi sempre che il suo rispetto per la donna agisce come una restrizione sulla propria attività sessuale, e sviluppa tutta la sua potenza solo quando si trova con un oggetto sessuale degradato e questo fatto è a sua volta determinato in parte dalla presenza di componenti perverse nelle mete sessuali, che non osa soddisfare con una donna che rispetta.

Ciò costituisce la fonte del suo bisogno di un oggetto sessuale degradato, di una donna eticamente inferiore, che non conoscendolo nelle sue altre relazioni sociali non può giudicarlo, ed a cui non deve attribuire scrupoli estetici.

(SUBLIMAZIONE)

L’incapacità dell’istinto sessuale di concedere una completa soddisfazione non appena accetta le prime richieste della civiltà diventa la fonte, tuttavia, delle più nobili conquiste culturali ottenute mediante una sublimazione sempre maggiore delle sue componenti istintuali. Infatti, quali motivi avrebbero gli uomini per adibire ad altri usi le forze istintive e sessuali se, mediante una loro distribuzione, potessero ottenere un piacere pienamente soddisfacente? Essi non abbandonerebbero mai quel piacere e non compirebbero più alcun progresso. Sembra, perciò, che l’inconciliabile differenza tra le esigenze dei due istinti – quello sessuale e quello egoistico – abbia reso gli uomini capaci di conquiste sempre maggiori, benchè soggetti, è vero, ad un costante pericolo al quale, sotto forma di nevrosi, oggi soccombono i più deboli.

(CIVILTA’ PRIMITIVE E PAURA DELLA DONNA)

 L’uomo primitivo è vittima di una perpetua disposizione all’angoscia…questa disponibilità all’angoscia si manifesta con maggiore forza in tutte le occasioni che differiscono in qualche modo dal normale, che implicano qualcosa di nuovo o inaspettato, qualcosa di non comprensibile o strano. Essa costituisce anche l’origine delle pratiche cerimoniali, estensivamente adottate nelle religioni più tarde, associate con l’inizio di ogni nuova impresa e di ogni nuovo periodo di tempo, i primordi della vita umana, animale e vegetale. I pericoli da cui l’uomo in angoscia si crede minacciato mai gli appaiono più vivi di quando si trova in una situazione pericolosa, e quella è per altro l’unica volta che ha senso proteggersi da esso. Nel matrimonio il primo rapporto sessuale può certamente esigere, in virtù della sua importanza, di essere preceduto da tali misure precauzionali (rituali, cerimonie, etc ndr)…

…(nelle civiltà primitive ndr) il rapporto con le donne è soggetto a restrizioni tanto solenni e numerose che abbiamo ogni ragione di dubitare sulla presunta libertà sessuale dei selvaggi….

L’uomo primitivo ovunque abbia eretto un tabù teme qualche pericolo e non c’è alcuni dubbio che in tutte queste regole volte a evitarlo si manifesti una paura generalizzata delle donneQuesta paura si basa forse sul fatto che la donna è diversa dall’uomo, sempre incomprensibile e misteriosa, strana e quindi apparentemente ostile. L’uomo teme di essere indebolito dalla donna, di restare infetto dalla sua femminilità e quindi di apparire incapace.

Il coito, scaricando le tensioni e provocando flaccidità, produce l’effetto che può rappresentare il prototipo di quel che l’uomo teme, e il rendersi conto dell’influenza che la donna esercita su di lui mediante il rapporto sessuale, la stima che ottiene da lui, possono giustificare l’aumento di questa paura. In tutto ciò non v’è nulla di desueto, nulla che non sia ancora vivo anche tra noi.

Sulla tendenza universale alla devalorizzazione della vita amorosa,
Sigmund Freud, 1912

Il professore di desiderio, Philip Roth

– Dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.
– E cosa dovrei fare nel tempo libero?
– Immergerti nella vita vera.
– C’è  un libro che parla proprio di questo…. –
– Io odio le biblioteche, odio i libri e odio le scuole.
A quanto ricordo, tendono a trasformare tutto quel che
riguarda la vita in qualcosa di leggermente diverso,
“leggermente” quando tutto va bene.
– E tu cosa vedi in me?
– Beh, anche tu li odi. Per quello che ti hanno fatto.
– E cioè?
– Ti hanno trasformato in qualcosa di…
– Orrendo?…
– No, non proprio. In qualcosa di leggermente diverso,
di leggermente…sbagliato. Tutto ciò che ti riguarda è un po’ una bugia…
eccetto i tuoi occhi. Lì ci sei tu. Non riesco a sostenere il tuo sguardo troppo a lungo.
È come ficcare la mano in un lavandino pieno d’acqua bollente per togliere il tappo.

“Il successo con le sconosciute…sta nel non porre mai una domanda cui non possano rispondere senza pensare, e poi nel prestare la massima attenzione alla loro risposta, per quanto banale. – Ricorda il tuo Henry James: “Drammatizzare, drammatizzare”. Devi far capire a queste persone che quel che loro sono, il luogo da dove provengono e gli abiti che indossano sono interessanti. Per così dire, imprescindibili. Ecco cos’è la compassione. E per favore niente ironia. Il tuo problema è che le spaventi con la tua straordinaria presa sulla complessità del reale. L’esperienza mi dice che la donna della strada non apprezza l’ironia. Anzi, l’ironia la manda in bestia. Vuole attenzione. Vuole apprezzamento. Di sicuro non vuole fare a gara d’arguzia con te, ragazzo. Risparmiati le sottigliezze per i tuoi saggi critici. Quando esci per strada, apriti. È a questo che servono le strade”.

Il professore di desiderio,
Philip Roth, 1977

Il professore di letteratura David Kepesh è un insoddisfatto cronico, un sognatore nevrotico e insaziabile, incapace di accettare la realtà. Non vuole piegarsi alla verità che il Desiderio non può essere un moto perpetuo ma è solo questione di attimi fuggevoli e casuali. Non vuole scendere a compromessi con l’implacabile fuggevolezza del piacere, con l’impossibilità di una felicità costante. Cosa vuole dalla vita? Ha avuto le sue avventure, se l’è spassata in Europa con una libidinosa scandinava, ha sposato una donna bellissima, ha una bella relazione con una venticinquenne dolce, brillante e affettuosa. Ha avuto una vita piena e piena d’amore e di sesso, ha una brillante posizione sociale, ha fatto della sua passione letteraria la propria professione, guadagna bene. Cosa vuole di più? Che coglione, oh.

Così può sembrare secondo il comune buonsenso. Probabilmente è così e basta, ma non importa. David Kepesh non è altro che un classico personaggio di Philip Roth, un palombaro della libertà umana, un esploratore erotico e sensuale che cerca di ottenere il massimo da quella manciata di anni che è la vita prima dello sfibramento fisico e mentale. Fuori da ogni morale comune, fuori da ogni convenzione sociale, da ogni “così è perchè così fanno tutti”, David Kepesh è un classico personaggio di Roth perchè viene da una famiglia ebrea piccolo borghese, cresciuto in un ambiente in cui l’evitare di finire sul lastrico, lavorare, impegnarsi nel mondo, dimenticare il piacere, erano la norma sociale. Dovere, sudore, risparmio, soldi, perbenismo e imposizioni. I grimaldelli con cui gli ebrei americani riuscirono ad integrarsi nel Mondo Nuovo. David Kepesh, come tutti i personaggi rothiani, compie presto il balzo fuori questo tipo di forma mentis. E così si trova atomizzato, isolato, anomico e libero. Libero di esplorare. L’uomo nella solitudine della propria libertà. Classico di Roth, insomma.

Ho cominciato a leggere “Il professore di desiderio” con un misto di noia e disillusione. La solita roba, pensavo. Sesso, perversione, avventure strambe e le solite efferatezze dell’umorismo ebraico. Niente di nuovo e niente di meglio rispetto alle altre cose di Roth. Poi lo stile, bah, troppo controllato, troppo colto, troppo snob, troppo letterario. Una noia, insomma. Invece poi mi sono ricreduto. Il controllo dello stile permette all’autore di padroneggiare meglio la scrittura, gli permette di arrivare all’obiettivo che si era prefissato. “Il professore di desiderio” è una spettacolare indagine sul tema della libertà umana, sull’erotismo come realizzazione dell’individuo, temi rothiani per eccellenza. E poi, questo stesso controllo dello stile produce brani di meravigliosa ispirazione letteraria. Roba che sembra fatta apposta per spingere al suicidio interi eserciti di aspiranti scrittori.

 Kepesh libertino

 Il giovanissimo David Kepesh, imbevuto di ebraicissimo operoso spirito di dedizione, è il pupillo degli insegnati. Primo della classe, serio e puntiglioso negli studi, lettore famelico, fin da piccolissimo ammantato di certezze e autistima. “Più che altro sono un assolutista – un giovane assolutista – e non conosco altro modo per cambiar pelle se non inserire il bisturi e lacerarmi da cima a fondo. O sono una cosa o l’altra”. Decide allora – con la stessa puntigliosità che impiega nell’istruzione – di dedicarsi a diventare un “libertino fra gli eruditi e un erudito fra i libertini”. Affamato di “figa e carta stampata”, comincia a tormentare tutte le fanciulle che gli vengono a tiro. Con risultati penosi. Le ragazzine gran parte delle volte si stupiscono di lui. “No, no, ti prego! – esclamano – Sei troppo intelligente per certe cose! Non possiamo limitarci a parlare di libri?”.

“Con una simile reputazione avrei dovuto ridurne centinaia al meretricio, mentre di fatto nel giro di quattro anni sono riuscito ad ottenere una penetrazione completa in due sole occasioni, e qualcosa di vagamente simile a una penetrazione in altre due”.

Ma il piccolo Kepesh ha già le idee chiare. Dice di sé stesso: “Mi considero una delle poche persone oneste in circolazione”. “Mi rifiuto – sulla base di una debolezza di cui mi sono fatto un principio – di resistere a ciò che trovo irresistibile, per quanto inconsistente e stramba o infantile e perversa chiunque altro possa considerare la fonte della mia attrazione”.

Poi va a studiare a Londra, in cui intreccia un menage a trois con due scandinave, Elisabeth e Birgitta. La prima, tenera e materna, affettuosa e piena di spirito caritatevole, che però ha il vizietto di tentare il suicidio un giorno si e un giorno no. La seconda, assatanata studentessa giramondo, che lo conduce a conoscere il sesso come uno strano fenomeno multiforme. Il ventiduenne David Kepesh vive la carnalità come un torbido intrecciarsi di assoggettamento e schiavismo. Con Birgitta, durante le loro peregrinazioni europee, adescano giovani ragazze nei pub per coinvolgerle nei loro giochi perversi. Poi Kepesh decide che è ora di mettersi la testa a posto e di far ritorno in America, per finire gli studi. Lascia Birgitta, che ancora lo desidera vicino a sé. “Ci siamo spinti troppo oltre e non potremmo mai tornare ad un rapporto normale”.

“Io facevo quello che gli artisti della masturbazione si limitavano a sognare”

 L’inferno dell’amore

Arrivato in America, laureato e già introdotto nell’ambiente accademico, conosce quel bel tipino che è Helen. Una sua coetanea che all’età di vent’anni ha mollato famiglia, università e tutto per scappare ad Hong Kong con un giornalista con il doppio dei suoi anni. Finita quella storia, torna in America dove vive tutta l’insoddisfazione di quella vita provinciale, squallida e prosaica. In lei Il Desiderio prende forma dei posti esotici che ha visitato, delle persone eccezionali che ha conosciuto, delle esperienze mirabolanti che ha vissuto. Lei è l’alter ego di David Kepesh, un’altra palombara della libertà umana. Un’altra insoddisfatta cronica, sognatrice nevrotica e infantile.

La convivenza va malissimo, i due si odiano presto – litigano per motivi quali un toast bruciato, una commissione dimenticata e cose così – e l’amore raggiunge altissime punte di perversione mentale. Entrambi a degradarsi continuando a stare insieme, e arrivando a sposarsi per paura.

Sposo Helen – e lei mi sposa – nel momento di impasse e stanchezza che prima o poi arriva per tutti coloro che hanno dedicato anni e anni a far patti chiari e accordi complicati a base di appartamenti separati e vacanze in comune, profferte di fedeltà e serate libere pianificate in anticipo; relazioni terminate con sollievo ogni cinque o sei mesi e felicemente dimenticate per settantadue ore, per poi ricominciare, spesso con una deliziosa, per quanto effimera, frenesia sessuale, in seguito a un incontro semifortuito al supermercato; o ripartite da zero dopo una telefonata fatta nel solo intento di comunicare alla compagna abbandonata il passaggio, quella sera alle dieci, di un bel documentario in Tv; o in seguito a una cena in cui la coppia aveva promesso di partecipare così tanto tempo prima che sarebbe stato sconveniente non adempiere insieme a quell’ultimo obbligo mondano. Certo, uno dei due avrebbe potuto andare alla cena da solo, ma da solo non avrebbe avuto un complice al di là del tavolo con cui scambiare segnali di noia e divertimento, e più tardi, al momento di tornare in macchina, non ci sarebbe stata una persona di mentalità affine con cui passare in rassegna le attrattive e le carenze degli altri ospiti; e neppure, al momento di spogliarsi per andare a letto, ci sarebbe stato un’amica bramosa e sorridente sdraiata nuda sopra le lenzuola con cui concordare sul fatto che l’unica persona davvero interessante presente alla cena era proprio il precedentemente sottovalutato ex partner.

I due si lasciano dopo qualche anno di matrimonio infernale. Dopo l’ennesimo colpo di testa di Helen, che scappa per Hong Kong e si fa arrestare dalla polizia locale. Helen è bellissima, curatissima, una creatura speciale. Ma vivere con lei ha logorato Kepesh nell’intimo. È la prima vera batosta della Vita Vera. “Cosa credevi di fare, sposando una di queste “creature speciali”? – gli dice un amico – Passare tutto il giorno ad accarezzare i suoi seni perfetti?”.

Kepesh solo e impotente. “Voglio Qualcuno!”

David Kepesh resta solo e vive la solitudine nel più lacerante dei modi, rinchiuso in un appartamentino soffocante in un quartiere degradato di New York, alle prese con i pazzi e gli spostati della Grande Mela. Solo e con l’incubo dell’impotenza. Comincia ad andare da uno psicanalista, comincia a prendere psicofarmaci.

Non riesco a mantenere un’erezione, dottor Klinger. Del resto non riesco neppure a mantenere un sorriso”.

“Perciò vado a chiudermi in bagno e allungandomi verso lo specchio per osservare la mia faccia tirata, mi libero – Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! – A volte vado avanti così per interi minuti, nel tentativo di suscitare un attacco di pianto che mi lasci fiacco e, almeno per un po’, mi faccia passare la voglia di qualcuno. Però non sono ancora così ammattito da credere che singhiozzando in una stanza chiusa farò apparire quel qualcuno che voglio. E poi, chi è che voglio? Se lo sapessi non avrei bisogno di ululare davanti allo specchio, potrei scrivere o telefonare. Voglio qualcuno, piagnucolo…”

 Claire

Kepesh vede la luce conoscendo Claire. Insegnante venticinquenne, bella, fresca e spontanea. Claire non è la bizzosa snob scostante Helen, è una persona che sembra fatta apposta per far star bene gli altri. Maestra della dedizione e del compiacimento, senza grilli sulla testa, con i piedi ben piantati a terra e con un passato tormentato di genitori che bevevano e si odiavano. Claire è la novita, l’aria fresca, nella vita dell’orma trentacinquenne Kepesh.

“Lei è per la stabilità…quel che Helen era per l’impetuosità. Era per il buonsenso quel che Birgitta era per l’impulsività. Non avevo mai visto una tale devozione per le più banali incombenze della vita quotidiana. È davvero impressionante il modo in cui affronta ogni giornata così come viene, l’attenzione che dedica a ogni singolo minuto. Non c’è spazio per sognare…solo per uno stabile, impegnato vivere”.

“Lei non parla mai di ciò che le manca, non indugia neanche per un momento su perdite, disgrazie o delusioni. Dovresti torturarla per convincerla a lamentarsi. È la persona ordinaria più straordinaria che abbia mai conosciuto”.

“Per la pazienza con cui lei si dedica al fare l’amore con me, per la cura che mette nel dosare cruda carnalità e tenera sollecitudine in modo da tenere a bada la mia tenace ansia e nello stesso tempo rinnovare la mia fede nell’accoppiamento e in tutto ciò che ne può derivare…E quei seni, quei seni…grossi e morbidi e vulnerabili, ciascuno pesa sul mio viso come una mammella da mungere, e nella mia mano è caldo e pesante come un paffuto animaletto addormentato. Oh, lo spettacolo di quella ragazza che mi sovrasta seminuda!”

Però, però, Kepesh non riesce nemmeno con Claire a stare bene stabilmente, come lei sembra riuscir a fare senza sforzo. La Passione non può mantenersi sempre sulle stesse vette. E questo il professore non lo accetta.

“Certo, ormai la passione fra noi non è più quella che era nelle domeniche trascorsi avvinghiati nel mio letto fino alle tre del pomeriggio – “il fiorito sentiero verso la pazzia”, come Claire ha definito una volta quei rapaci esercizi dopo i quali ci alzavamo per cambiare le lenzuola con gambe malferme da viaggiatori esausti, ci abbracciavamo sotto la doccia e infine uscivamo a prendere un po’ d’aria prima che il sole invernale calasse. Che, una volta cominciato, il nostro fare l’amore potesse seguitare con immutata intensità per quasi un anno – che due insegnanti operosi, responsabili, idealisti potessero incollarsi l’uno all’altra come mute creature marine giungendo, prima di traboccare, a un soffio dal lacerarsi le carni con fauci cannibalesche -, ebbene, è assai più di quanto avrei mai osato immaginare, dopo aver già tanto combattuto – giù tanto puntato e tanto perduto – sotto il ciencioso stendardo scarlatto di Sua Altezza Reale, la mia lussuria.
Stabilizzazione. La torrida frenesia cede a una pacata affezione fisica. È così che preferisco definire quel che sta accadendo alla nostra passione nel corso di questa estate beata. Dovrei pensarla altrimenti – dovrei credere che, invece di adagiarmi su un temperato altopiano di dolce, confortevole intimità, sto scivolando a precipizio giù da una scarpata e prima o poi precipiterò in una fredda e solitaria caverna? Certo, l’elemento vagamente brutale si è volatilizzato; si è persa quella miscela di tenerezza e ferocia, i lividi bluastri segno di un completo soggiogamento, l’elettrizzante licenziosità delle parole volgari alitate al picco del piacere. Non soccombiamo più al desiderio, e neppure ci tocchiamo dappertutto palpandoci e impastandoci e manipolandoci con quella folle insaziabilità così aliena da quel che altrimenti siamo. È vero, non c’è più in me quel po’ di bruto, non c’è più in lei quel po’ di sgualdrina, né l’uno né l’altra siamo più il pazzo smanioso, la bambina depravata, l’implacabile stupratore, l’inerme impalata. I denti, che una volta erano lame e tenaglie, denti di gattini e cagnolini pronti a infliggere dolore, sono di nuovo solamente denti, e le lingue sono lingue, e le membra membra. Ed è, come tutti sappiamo, così che dev’essere.
E questa volta non ho intenzione di litigare o deprimermi o struggermi o disperarmi. Non farò una religione di ciò che sta svanendo – del mio ardore per quella coppa in cui affondo il viso come per suggere l’ultima stilla di uno sciroppo da ingurgitare a più non posso…della cruda eccitazione di quella stretta, quel pompare così forte, così rapido, così inflessibile che se io non gemessi per avvertirla che sono prosciugato, disfatto, intorpidito, lei continuerebbe, in quello sfrenato stato di fervore che rasenta l’efferatezza, fino a mungermi la vita stessa dal corpo. Non farò una religione della meravigliosa visione di lei mezza svestita. No, non voglio farmi illusioni sull’eventualità di una replica in grande stile del dramma che a quanto pare abbiamo smesso di recitare, quel teatro clandestino, sotterraneo, incensurato, di quattro identità furtive – le due che ansimano nella performance e le due che guardano ansimanti – quando qualsivoglia preoccupazione per l’igiene, il clima, l’ora del giorno e della notte era una ridicola insulsaggine”.

“Oh, santa innocenza, tu non riesci a capire e io non riesco a spiegare. Non posso dirtelo, non stasera ma nel giro di un anno la mia passione sarà spenta. Si sta già spegnendo e temo di non poter fare nulla per salvarla. E che tu non possa far nulla. Sono intimamente legato – legato a te come a nessun altro! – eppure non riuscirò neanche a sollevare una mano per toccarti…a meno di ricordare prima a me stesso che devo farlo. Per questa carne su cui sono stato innestato e riportato a una qualche padronanza sulla mia vita, sarò privo di desiderio. Oh, è stupido! Idiota! Ingiusto! Essere derubato in questo modo di te! E di questa vita che amo e che ho appena cominciato a conoscere! E derubato da chi! Da me stesso, da chi se no!”.

 “Volevo essere felice, ma ci ho rinunciato”

Succede che mentre David e Claire sono in vacanza, piomba la pazza e bizzosa Helen. Ha superato un lungo periodo di disturbi psicosomatici grazie ad un tizio che si è innamorato di lei e ha fatto di tutto per “salvarla”. Lei si è fatta salvare, si è rimessa in sesto e vive la sua relazione con quell’uomo posato, robusto, pieno di energia e di bontà, l’alter ego di Claire, con un misto di agitazione e tristezza. Il confronto tra David e Helen è il dialogo di due anime allo specchio. Entrambe insoddisfatte. Entrambe malate di desiderio.

– Il fatto è che ho sempre odiato il modo in cui la gente ammazza il tempo. Io avevo piani grandiosi per la mia vita.
– Ricordo.
– Bè, anche quella roba è morta e sepolta. Adesso mi accontento di quel che c’è, e ringrazio pure….Vedi, non mi importa più di essere felice. Ci ho rinunciato. Mi importa solo di non essere torturata. Sono disposta a tutto. Ad avere dieci figli, ad averne venti, se lui vuole così. ..Dovresti vedere come compiaccio la gente di questi tempi. Ascolto Les, annuisco e sorrido, e penso che morirò di noia. Qualsiasi cosa faccia mi irrita a morte….Ogni notte mi rigiro a letto con l’incubo di non amare nessuno.

 “Voglio solo essere un essere umano. Senza menzogne”

 Mentre Kepesh, “maestro della repressione e dell’abbandono”, comincia ad essere tormentato dalla disperazione per il suo rapporto con Claire, per la fine del desiderio, lo spettro dell’impotenza e roba del genere, gli capita di incontrare un vegliardo sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Le sue parole sono quanto di più simile ad una Verità, un qualcosa che in Philip Roth – maestro dell’antitesi – è davvero arduo trovare.

“E prima della guerra? Lei allora era giovane. Cosa avrebbe voluto diventare?”. “Un essere umano. Una persona capace di conoscere e comprendere la vita, e cio che è reale, senza crogiolarsi nelle menzogne. È sempre stata questa la mia ambizione, fin da bambino”.