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Woody Allen, l’ideologia psicanalitica e le malattie dell’abbondanza

Woody Allen conosce personalmente l’angoscia della morte e dell’assurdo, il sentimento della colpa, la paura di essere andati fuori strada e di aver fallito nella propria vita; ed è convinto, in ogni caso, che un’opera artistica o letteraria che manchi di affrontare le grandi “questioni esistenziali” – secondo lui “le uniche veramente degne di interesse” – sarebbe un’opera mutilata a cui mancherebbe una dimensione. (…)

Il gusto di mescolare la finezza psicologica e lo humor è comunque un tratto d’epoca: il ricorso all’autoderisione permette oggi a molti membri delle società liberali avanzate tanto di esprimere la preoccupazione ossessiva che hanno di se stessi, quanto di beffarsene, perchè per quanto siano narcisisti, sanno bene che in fondo i loto problemi psicologici sono un lusso da privilegiati, e che hanno comunque la possibilità di vivere nella loro prospera e pacifica civiltà.
Per questo motivo i film di Allen non possono che essere considerati insieme all’epoca che descrivono, dato anche che uno dei loro principali interessi è proprio quello di offrirci un riflesso della grande svolta individualistica prodottasi nelle società sviluppate intorno al terzo quarto del XX secolo.
I personaggi contemporanei di cui Allen analizza finemente fantasmi, frustrazioni e ossessioni hanno una psicologia assai differente rispetto a quella dei loro genitori e dei loro nonni, in quanto vivono in un quadro materiale e culturale che non ha un granchè a che vedere con il loro. Conosciamo , ad esempio, quello dei genitori di Allen, modesti ebrei di Brooklin, evocati in Radio Days (1987): condizioni di vita difficili che impongono abitudini di austerità e di economia; un lavoro, spesso duro e faticoso, appena sufficiente a sbarcare il lunario; la presenza rassicurante e soffocante insieme dell’ambiente familiare e del gruppo sociale, che fanno sentire la loro legge sui singoli; una consolidata valorizzazione della tradizione, della rispettabilità sociale e dei buoni costumi; una morale del lavoro e del rispetto ella legge che non riconosce nessuna leggittimità alla ricerca del piacere; un basso livello culturale congiunto ad una sostanziale sfiducia verso i discorsi troppo audaci, troppo “intellettuali” e “corrosivi”: “I valori dei miei genitori sono Dio e la moquette”, afferma Allen in uno sketch (…).
Quarant’anni più tardi le cose sono profondamente cambiate: il livello di vita si è notevolmente elevato, il consumo si è banalizzato, si è assunta l’abitudine del comfort e del tempo libero, dello sport, dei ristoranti, degli spettacoli e dei viaggi, e nonostante l’insicurezza regni sovrana nel mercato del lavoro, nessuno di coloro che nei film di Allen si danno da fare per trovare un impiego teme davvero la miseria. (…)
Le loro preoccupazioni sono fondamentalmente individualistiche. Lo scopo che questi personaggi si danno nella vita non è più quello di inserirsi nell’ordine sociale tradizionale, di conservare il loro ruolo nel gruppo e di farsi apprezzare per la loro passione nel lavoro e per il loro senso morale, e non è neanche, al contrario, quello di edificare una società più giusta: è semplicemente di arrivare a crescere e realizzarsi individualmente (…)
Essi aspirano a vivere una vita sessuale e amorosa gratificante. Il sesso, di cui secondo Allen nessuno parlava nella sua famiglia, e che quasi non si praticava più, è oramai completamente scolpevolizzato e riconosciuto come una delle fonti di felicità più evidenti e naturali, al punto di essere divenuto un’ossessione esplicita e da essere commentato senza falsi pudori: i personaggi alleniani si complimentano ben volentieri per le loro performances a letto, o altrimenti si scusano delle loro eventuali dèfaillances; le loro battute sono spesso crude: “Il sesso è sudicio? Solo quando è ben fatto”. (…)
Questa preoccupazione ossessiva di sé che caratterizza l’individuo contemporaneo sotto alcuni aspetti è spia del sentimento che la felicità terrena, a lungo creduta inaccessibile, appare ormai possibile in una società in cui il livello di prosperità e libertà non ha eguali nella storia.
Ma ciò genera anche delle nuove inquietudini e delle nuove malattie: innanzitutto perchè nella corsa alla realizzazione è impossibile che ci siano solo vincitori, e sono in tanti a restare bloccati, frustrati da quelle soddisfazioni di cui sembra che i loro simili siano colmi, con la sensazione, talvolta, di essere dei semplici falliti, inutili e senza valore.
Lo scarto tra l’aspirazione a una felicità che sembra essere divenuta un diritto e una realtà spesso deludente accresce perciò l’insoddisfazione e le tendenze depressive.

La filosofia di Woody Allen”, Roland Quilliot, 2011

La grande popolarità della psicanalisi in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti, fin dagli inizi degli anni trenta ha indubbiamente la stessa base sociale. Ecco una borghesia per la quale la vita ha perso significato. Non hanno nessun ideale politico o religioso, eppure sono in cerca di un significato, di un’idea alla quale dedicarsi, di una spiegazione della vita che non richieda fede o sacrifici (…)

Si deve notare che in principio, dal 1900 agli anni venti, la psicoanalisi era molto più radicale di quanto non lo sia diventata dopo aver ottenuto la sua grande popolarità. Per la borghesia cresciuta nell’età vittoriana, le affermazioni di Freud sulla sessualità infantile, sugli effetti patologici della repressione sessuale etc, erano violazioni radicali dei loro tabù, e ci voleva coraggio e indipendenza per violarli. Ma trent’anni più tardi, quando gli anni venti portarono con sé un’ondata di erotismo e un diffuso abbandono degli standard vittoriani, le stesse teorie non erano più traumatizzanti o provocatorie. Così la teoria psicanalitica ottene l’acclamazione popolare in tutti quei settori della società che erano avversi all’autentico radicalismo, cioè all’andare “alle radici”, pur essendo desiderosi di criticare e trasgredire le consuetudini conservatrici del diciannovesimo secolo. In questi circoli – vale a dire, tra i liberali – la psicoanalisi espresse la desiderabile via di mezzo tra i li radicalismo umanistico e il corservatorismo vittoriano.
La psicoanalisi divenne la soddisfazione surrogatoria d’una profonda aspirazione umana, quella di trovare un significato per la vita, di essere autenticamente a contatto con la realtà, di eliminare le distorsioni e le proiezioni che pongono un velo tra realtà e noi stessi. Essa divenne un surrogato della religion per la media e alta borghesia che non desiderava fare uno sforzo più radicale e comprensivo.
Qui, nel Movimento Psicanalitico, trovarono tutto: un dogma, un rituale, un capo, una gerarchia, la sensazione di possedere la verità, di essere superiori ai non iniziati; e tuttavia senza grande sforzo, senza una profonda comprensione dei problemi dell’esistenza umana, senza sapere vedere dentro e criticare la loro stessa società e gli effetti deformanti sull’uomo, senza dover cambiare il proprio carattere in quegli aspetti che importano, e precisamente sbarazzarsi della propria avidità, irosità e follia. Tutto ciò di cui si cercò di sbarazzarsi furono certe fissazioni erotiche e la loro traslazione, e sebbene talvolta questo possa essere importante, esso non è sufficiente per il conseguimento di quella trasformazione caratteriologica che è necessaria per essere in pieno contatto con la realtà.
Da un’idea progressista e coraggiosa la psicoanalisi si trasformò in un sicuro credo di quei membri impauriti e isolati della media borghesia che non trovavano rifugio nei movimenti religiosi e sociali più convenzionali del loro tempo. La decadenza del liberalismo è espressa nella decadenza della psicanalisi.

 “La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm, 1975

Il professore di desiderio, Philip Roth

– Dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.
– E cosa dovrei fare nel tempo libero?
– Immergerti nella vita vera.
– C’è  un libro che parla proprio di questo…. –
– Io odio le biblioteche, odio i libri e odio le scuole.
A quanto ricordo, tendono a trasformare tutto quel che
riguarda la vita in qualcosa di leggermente diverso,
“leggermente” quando tutto va bene.
– E tu cosa vedi in me?
– Beh, anche tu li odi. Per quello che ti hanno fatto.
– E cioè?
– Ti hanno trasformato in qualcosa di…
– Orrendo?…
– No, non proprio. In qualcosa di leggermente diverso,
di leggermente…sbagliato. Tutto ciò che ti riguarda è un po’ una bugia…
eccetto i tuoi occhi. Lì ci sei tu. Non riesco a sostenere il tuo sguardo troppo a lungo.
È come ficcare la mano in un lavandino pieno d’acqua bollente per togliere il tappo.

“Il successo con le sconosciute…sta nel non porre mai una domanda cui non possano rispondere senza pensare, e poi nel prestare la massima attenzione alla loro risposta, per quanto banale. – Ricorda il tuo Henry James: “Drammatizzare, drammatizzare”. Devi far capire a queste persone che quel che loro sono, il luogo da dove provengono e gli abiti che indossano sono interessanti. Per così dire, imprescindibili. Ecco cos’è la compassione. E per favore niente ironia. Il tuo problema è che le spaventi con la tua straordinaria presa sulla complessità del reale. L’esperienza mi dice che la donna della strada non apprezza l’ironia. Anzi, l’ironia la manda in bestia. Vuole attenzione. Vuole apprezzamento. Di sicuro non vuole fare a gara d’arguzia con te, ragazzo. Risparmiati le sottigliezze per i tuoi saggi critici. Quando esci per strada, apriti. È a questo che servono le strade”.

Il professore di desiderio,
Philip Roth, 1977

Il professore di letteratura David Kepesh è un insoddisfatto cronico, un sognatore nevrotico e insaziabile, incapace di accettare la realtà. Non vuole piegarsi alla verità che il Desiderio non può essere un moto perpetuo ma è solo questione di attimi fuggevoli e casuali. Non vuole scendere a compromessi con l’implacabile fuggevolezza del piacere, con l’impossibilità di una felicità costante. Cosa vuole dalla vita? Ha avuto le sue avventure, se l’è spassata in Europa con una libidinosa scandinava, ha sposato una donna bellissima, ha una bella relazione con una venticinquenne dolce, brillante e affettuosa. Ha avuto una vita piena e piena d’amore e di sesso, ha una brillante posizione sociale, ha fatto della sua passione letteraria la propria professione, guadagna bene. Cosa vuole di più? Che coglione, oh.

Così può sembrare secondo il comune buonsenso. Probabilmente è così e basta, ma non importa. David Kepesh non è altro che un classico personaggio di Philip Roth, un palombaro della libertà umana, un esploratore erotico e sensuale che cerca di ottenere il massimo da quella manciata di anni che è la vita prima dello sfibramento fisico e mentale. Fuori da ogni morale comune, fuori da ogni convenzione sociale, da ogni “così è perchè così fanno tutti”, David Kepesh è un classico personaggio di Roth perchè viene da una famiglia ebrea piccolo borghese, cresciuto in un ambiente in cui l’evitare di finire sul lastrico, lavorare, impegnarsi nel mondo, dimenticare il piacere, erano la norma sociale. Dovere, sudore, risparmio, soldi, perbenismo e imposizioni. I grimaldelli con cui gli ebrei americani riuscirono ad integrarsi nel Mondo Nuovo. David Kepesh, come tutti i personaggi rothiani, compie presto il balzo fuori questo tipo di forma mentis. E così si trova atomizzato, isolato, anomico e libero. Libero di esplorare. L’uomo nella solitudine della propria libertà. Classico di Roth, insomma.

Ho cominciato a leggere “Il professore di desiderio” con un misto di noia e disillusione. La solita roba, pensavo. Sesso, perversione, avventure strambe e le solite efferatezze dell’umorismo ebraico. Niente di nuovo e niente di meglio rispetto alle altre cose di Roth. Poi lo stile, bah, troppo controllato, troppo colto, troppo snob, troppo letterario. Una noia, insomma. Invece poi mi sono ricreduto. Il controllo dello stile permette all’autore di padroneggiare meglio la scrittura, gli permette di arrivare all’obiettivo che si era prefissato. “Il professore di desiderio” è una spettacolare indagine sul tema della libertà umana, sull’erotismo come realizzazione dell’individuo, temi rothiani per eccellenza. E poi, questo stesso controllo dello stile produce brani di meravigliosa ispirazione letteraria. Roba che sembra fatta apposta per spingere al suicidio interi eserciti di aspiranti scrittori.

 Kepesh libertino

 Il giovanissimo David Kepesh, imbevuto di ebraicissimo operoso spirito di dedizione, è il pupillo degli insegnati. Primo della classe, serio e puntiglioso negli studi, lettore famelico, fin da piccolissimo ammantato di certezze e autistima. “Più che altro sono un assolutista – un giovane assolutista – e non conosco altro modo per cambiar pelle se non inserire il bisturi e lacerarmi da cima a fondo. O sono una cosa o l’altra”. Decide allora – con la stessa puntigliosità che impiega nell’istruzione – di dedicarsi a diventare un “libertino fra gli eruditi e un erudito fra i libertini”. Affamato di “figa e carta stampata”, comincia a tormentare tutte le fanciulle che gli vengono a tiro. Con risultati penosi. Le ragazzine gran parte delle volte si stupiscono di lui. “No, no, ti prego! – esclamano – Sei troppo intelligente per certe cose! Non possiamo limitarci a parlare di libri?”.

“Con una simile reputazione avrei dovuto ridurne centinaia al meretricio, mentre di fatto nel giro di quattro anni sono riuscito ad ottenere una penetrazione completa in due sole occasioni, e qualcosa di vagamente simile a una penetrazione in altre due”.

Ma il piccolo Kepesh ha già le idee chiare. Dice di sé stesso: “Mi considero una delle poche persone oneste in circolazione”. “Mi rifiuto – sulla base di una debolezza di cui mi sono fatto un principio – di resistere a ciò che trovo irresistibile, per quanto inconsistente e stramba o infantile e perversa chiunque altro possa considerare la fonte della mia attrazione”.

Poi va a studiare a Londra, in cui intreccia un menage a trois con due scandinave, Elisabeth e Birgitta. La prima, tenera e materna, affettuosa e piena di spirito caritatevole, che però ha il vizietto di tentare il suicidio un giorno si e un giorno no. La seconda, assatanata studentessa giramondo, che lo conduce a conoscere il sesso come uno strano fenomeno multiforme. Il ventiduenne David Kepesh vive la carnalità come un torbido intrecciarsi di assoggettamento e schiavismo. Con Birgitta, durante le loro peregrinazioni europee, adescano giovani ragazze nei pub per coinvolgerle nei loro giochi perversi. Poi Kepesh decide che è ora di mettersi la testa a posto e di far ritorno in America, per finire gli studi. Lascia Birgitta, che ancora lo desidera vicino a sé. “Ci siamo spinti troppo oltre e non potremmo mai tornare ad un rapporto normale”.

“Io facevo quello che gli artisti della masturbazione si limitavano a sognare”

 L’inferno dell’amore

Arrivato in America, laureato e già introdotto nell’ambiente accademico, conosce quel bel tipino che è Helen. Una sua coetanea che all’età di vent’anni ha mollato famiglia, università e tutto per scappare ad Hong Kong con un giornalista con il doppio dei suoi anni. Finita quella storia, torna in America dove vive tutta l’insoddisfazione di quella vita provinciale, squallida e prosaica. In lei Il Desiderio prende forma dei posti esotici che ha visitato, delle persone eccezionali che ha conosciuto, delle esperienze mirabolanti che ha vissuto. Lei è l’alter ego di David Kepesh, un’altra palombara della libertà umana. Un’altra insoddisfatta cronica, sognatrice nevrotica e infantile.

La convivenza va malissimo, i due si odiano presto – litigano per motivi quali un toast bruciato, una commissione dimenticata e cose così – e l’amore raggiunge altissime punte di perversione mentale. Entrambi a degradarsi continuando a stare insieme, e arrivando a sposarsi per paura.

Sposo Helen – e lei mi sposa – nel momento di impasse e stanchezza che prima o poi arriva per tutti coloro che hanno dedicato anni e anni a far patti chiari e accordi complicati a base di appartamenti separati e vacanze in comune, profferte di fedeltà e serate libere pianificate in anticipo; relazioni terminate con sollievo ogni cinque o sei mesi e felicemente dimenticate per settantadue ore, per poi ricominciare, spesso con una deliziosa, per quanto effimera, frenesia sessuale, in seguito a un incontro semifortuito al supermercato; o ripartite da zero dopo una telefonata fatta nel solo intento di comunicare alla compagna abbandonata il passaggio, quella sera alle dieci, di un bel documentario in Tv; o in seguito a una cena in cui la coppia aveva promesso di partecipare così tanto tempo prima che sarebbe stato sconveniente non adempiere insieme a quell’ultimo obbligo mondano. Certo, uno dei due avrebbe potuto andare alla cena da solo, ma da solo non avrebbe avuto un complice al di là del tavolo con cui scambiare segnali di noia e divertimento, e più tardi, al momento di tornare in macchina, non ci sarebbe stata una persona di mentalità affine con cui passare in rassegna le attrattive e le carenze degli altri ospiti; e neppure, al momento di spogliarsi per andare a letto, ci sarebbe stato un’amica bramosa e sorridente sdraiata nuda sopra le lenzuola con cui concordare sul fatto che l’unica persona davvero interessante presente alla cena era proprio il precedentemente sottovalutato ex partner.

I due si lasciano dopo qualche anno di matrimonio infernale. Dopo l’ennesimo colpo di testa di Helen, che scappa per Hong Kong e si fa arrestare dalla polizia locale. Helen è bellissima, curatissima, una creatura speciale. Ma vivere con lei ha logorato Kepesh nell’intimo. È la prima vera batosta della Vita Vera. “Cosa credevi di fare, sposando una di queste “creature speciali”? – gli dice un amico – Passare tutto il giorno ad accarezzare i suoi seni perfetti?”.

Kepesh solo e impotente. “Voglio Qualcuno!”

David Kepesh resta solo e vive la solitudine nel più lacerante dei modi, rinchiuso in un appartamentino soffocante in un quartiere degradato di New York, alle prese con i pazzi e gli spostati della Grande Mela. Solo e con l’incubo dell’impotenza. Comincia ad andare da uno psicanalista, comincia a prendere psicofarmaci.

Non riesco a mantenere un’erezione, dottor Klinger. Del resto non riesco neppure a mantenere un sorriso”.

“Perciò vado a chiudermi in bagno e allungandomi verso lo specchio per osservare la mia faccia tirata, mi libero – Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! – A volte vado avanti così per interi minuti, nel tentativo di suscitare un attacco di pianto che mi lasci fiacco e, almeno per un po’, mi faccia passare la voglia di qualcuno. Però non sono ancora così ammattito da credere che singhiozzando in una stanza chiusa farò apparire quel qualcuno che voglio. E poi, chi è che voglio? Se lo sapessi non avrei bisogno di ululare davanti allo specchio, potrei scrivere o telefonare. Voglio qualcuno, piagnucolo…”

 Claire

Kepesh vede la luce conoscendo Claire. Insegnante venticinquenne, bella, fresca e spontanea. Claire non è la bizzosa snob scostante Helen, è una persona che sembra fatta apposta per far star bene gli altri. Maestra della dedizione e del compiacimento, senza grilli sulla testa, con i piedi ben piantati a terra e con un passato tormentato di genitori che bevevano e si odiavano. Claire è la novita, l’aria fresca, nella vita dell’orma trentacinquenne Kepesh.

“Lei è per la stabilità…quel che Helen era per l’impetuosità. Era per il buonsenso quel che Birgitta era per l’impulsività. Non avevo mai visto una tale devozione per le più banali incombenze della vita quotidiana. È davvero impressionante il modo in cui affronta ogni giornata così come viene, l’attenzione che dedica a ogni singolo minuto. Non c’è spazio per sognare…solo per uno stabile, impegnato vivere”.

“Lei non parla mai di ciò che le manca, non indugia neanche per un momento su perdite, disgrazie o delusioni. Dovresti torturarla per convincerla a lamentarsi. È la persona ordinaria più straordinaria che abbia mai conosciuto”.

“Per la pazienza con cui lei si dedica al fare l’amore con me, per la cura che mette nel dosare cruda carnalità e tenera sollecitudine in modo da tenere a bada la mia tenace ansia e nello stesso tempo rinnovare la mia fede nell’accoppiamento e in tutto ciò che ne può derivare…E quei seni, quei seni…grossi e morbidi e vulnerabili, ciascuno pesa sul mio viso come una mammella da mungere, e nella mia mano è caldo e pesante come un paffuto animaletto addormentato. Oh, lo spettacolo di quella ragazza che mi sovrasta seminuda!”

Però, però, Kepesh non riesce nemmeno con Claire a stare bene stabilmente, come lei sembra riuscir a fare senza sforzo. La Passione non può mantenersi sempre sulle stesse vette. E questo il professore non lo accetta.

“Certo, ormai la passione fra noi non è più quella che era nelle domeniche trascorsi avvinghiati nel mio letto fino alle tre del pomeriggio – “il fiorito sentiero verso la pazzia”, come Claire ha definito una volta quei rapaci esercizi dopo i quali ci alzavamo per cambiare le lenzuola con gambe malferme da viaggiatori esausti, ci abbracciavamo sotto la doccia e infine uscivamo a prendere un po’ d’aria prima che il sole invernale calasse. Che, una volta cominciato, il nostro fare l’amore potesse seguitare con immutata intensità per quasi un anno – che due insegnanti operosi, responsabili, idealisti potessero incollarsi l’uno all’altra come mute creature marine giungendo, prima di traboccare, a un soffio dal lacerarsi le carni con fauci cannibalesche -, ebbene, è assai più di quanto avrei mai osato immaginare, dopo aver già tanto combattuto – giù tanto puntato e tanto perduto – sotto il ciencioso stendardo scarlatto di Sua Altezza Reale, la mia lussuria.
Stabilizzazione. La torrida frenesia cede a una pacata affezione fisica. È così che preferisco definire quel che sta accadendo alla nostra passione nel corso di questa estate beata. Dovrei pensarla altrimenti – dovrei credere che, invece di adagiarmi su un temperato altopiano di dolce, confortevole intimità, sto scivolando a precipizio giù da una scarpata e prima o poi precipiterò in una fredda e solitaria caverna? Certo, l’elemento vagamente brutale si è volatilizzato; si è persa quella miscela di tenerezza e ferocia, i lividi bluastri segno di un completo soggiogamento, l’elettrizzante licenziosità delle parole volgari alitate al picco del piacere. Non soccombiamo più al desiderio, e neppure ci tocchiamo dappertutto palpandoci e impastandoci e manipolandoci con quella folle insaziabilità così aliena da quel che altrimenti siamo. È vero, non c’è più in me quel po’ di bruto, non c’è più in lei quel po’ di sgualdrina, né l’uno né l’altra siamo più il pazzo smanioso, la bambina depravata, l’implacabile stupratore, l’inerme impalata. I denti, che una volta erano lame e tenaglie, denti di gattini e cagnolini pronti a infliggere dolore, sono di nuovo solamente denti, e le lingue sono lingue, e le membra membra. Ed è, come tutti sappiamo, così che dev’essere.
E questa volta non ho intenzione di litigare o deprimermi o struggermi o disperarmi. Non farò una religione di ciò che sta svanendo – del mio ardore per quella coppa in cui affondo il viso come per suggere l’ultima stilla di uno sciroppo da ingurgitare a più non posso…della cruda eccitazione di quella stretta, quel pompare così forte, così rapido, così inflessibile che se io non gemessi per avvertirla che sono prosciugato, disfatto, intorpidito, lei continuerebbe, in quello sfrenato stato di fervore che rasenta l’efferatezza, fino a mungermi la vita stessa dal corpo. Non farò una religione della meravigliosa visione di lei mezza svestita. No, non voglio farmi illusioni sull’eventualità di una replica in grande stile del dramma che a quanto pare abbiamo smesso di recitare, quel teatro clandestino, sotterraneo, incensurato, di quattro identità furtive – le due che ansimano nella performance e le due che guardano ansimanti – quando qualsivoglia preoccupazione per l’igiene, il clima, l’ora del giorno e della notte era una ridicola insulsaggine”.

“Oh, santa innocenza, tu non riesci a capire e io non riesco a spiegare. Non posso dirtelo, non stasera ma nel giro di un anno la mia passione sarà spenta. Si sta già spegnendo e temo di non poter fare nulla per salvarla. E che tu non possa far nulla. Sono intimamente legato – legato a te come a nessun altro! – eppure non riuscirò neanche a sollevare una mano per toccarti…a meno di ricordare prima a me stesso che devo farlo. Per questa carne su cui sono stato innestato e riportato a una qualche padronanza sulla mia vita, sarò privo di desiderio. Oh, è stupido! Idiota! Ingiusto! Essere derubato in questo modo di te! E di questa vita che amo e che ho appena cominciato a conoscere! E derubato da chi! Da me stesso, da chi se no!”.

 “Volevo essere felice, ma ci ho rinunciato”

Succede che mentre David e Claire sono in vacanza, piomba la pazza e bizzosa Helen. Ha superato un lungo periodo di disturbi psicosomatici grazie ad un tizio che si è innamorato di lei e ha fatto di tutto per “salvarla”. Lei si è fatta salvare, si è rimessa in sesto e vive la sua relazione con quell’uomo posato, robusto, pieno di energia e di bontà, l’alter ego di Claire, con un misto di agitazione e tristezza. Il confronto tra David e Helen è il dialogo di due anime allo specchio. Entrambe insoddisfatte. Entrambe malate di desiderio.

– Il fatto è che ho sempre odiato il modo in cui la gente ammazza il tempo. Io avevo piani grandiosi per la mia vita.
– Ricordo.
– Bè, anche quella roba è morta e sepolta. Adesso mi accontento di quel che c’è, e ringrazio pure….Vedi, non mi importa più di essere felice. Ci ho rinunciato. Mi importa solo di non essere torturata. Sono disposta a tutto. Ad avere dieci figli, ad averne venti, se lui vuole così. ..Dovresti vedere come compiaccio la gente di questi tempi. Ascolto Les, annuisco e sorrido, e penso che morirò di noia. Qualsiasi cosa faccia mi irrita a morte….Ogni notte mi rigiro a letto con l’incubo di non amare nessuno.

 “Voglio solo essere un essere umano. Senza menzogne”

 Mentre Kepesh, “maestro della repressione e dell’abbandono”, comincia ad essere tormentato dalla disperazione per il suo rapporto con Claire, per la fine del desiderio, lo spettro dell’impotenza e roba del genere, gli capita di incontrare un vegliardo sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Le sue parole sono quanto di più simile ad una Verità, un qualcosa che in Philip Roth – maestro dell’antitesi – è davvero arduo trovare.

“E prima della guerra? Lei allora era giovane. Cosa avrebbe voluto diventare?”. “Un essere umano. Una persona capace di conoscere e comprendere la vita, e cio che è reale, senza crogiolarsi nelle menzogne. È sempre stata questa la mia ambizione, fin da bambino”.

Come si dice stigghiola in yiddish?

“Gli abitanti della Città (Palermo ndr) credono di essere estremamente complicati. Si offendono delle semplificazioni che li riguardano. Esiste un genere di imbarazzata suscettibilità che accomuna isolani ed ebrei, due popoli che hanno fatto del senso di colpa un tratto caratteriale collettivo costante. A pensarci bene però, gli isolani sanno benissimo a cosa è dovuto il loro senso di colpa: credono di essere in debito nei confronti del mondo perché dalla loro isola la mafia si è ramificata nel mondo e lo ha impestato. Gli isolani, anche quelli onesti, nel loro profondo sentono di appartenere a una stirpe di untori. Sono persino  pronti ad ammetterlo, e anzi sono i primi a parlare malissimo della loro Città, proprio come gli ebrei parlano male di sé stessi. Allo stesso tempo però – ancora una volta: come gli ebrei – non accettano che siano gli altri a parlare male di loro. Pur non ritenendosi all’altezza del resto del mondo non ritengono il mondo alla loro altezza”

Roberto Alajmo,” Palermo è una cipolla”, 200

“Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me”.

Io&annie, Woody Allen, 1977

Forzata o no, il paragone tra il popolo ebreo e quello siciliano mi affascina. Ok, hanno passati molto diversi, bisogna considerare i diversi meccanismi storici. Però qualcosa di comune c’è. Entrambi sono popoli che da sempre fanno a pugni con la propria identità. Che vivono il tormento di essere ciò che non si vuol essere, ma che spesso si lasciano andare all’orgoglio cieco di essere ciò che si è. Gli ebrei come i siciliani? Perché no.  Il popolo più perseguitato della storia contro il popolo di cui la storia è un susseguirsi di dominazioni, oppressioni, prepotenze. Entrambi, indubbiamente, sono Senza Patria.

Entrambi hanno uno humor piuttosto efferato, brutale, spesso giudicato “di cattivo gusto”. L’altra faccia della medaglia di un pessimismo che è radicato, viscerale, senza requie. È Verga con i suoi miti neri e terrosi, i suoi teoremi dell’ostrica, Pirandello con il suo sguardo angosciato, Tomasi di Lampedusa con la sua sfiducia perenne. Del pessimismo ebraico manco c’è bisogno di fare esempi. È un luogo comune ben rappresentato da Woody Allen nel suo ultimo film “Basta che funzioni”, con il protagonista che si sveglia nel cuore della notte gridando L’Orrore, L’Orrore.

Entrambi i popoli hanno una grande letteratura, un grande cinema, una grande narrazione. Entrambi hanno sentito nelle budella l’urgenza di raccontare e soprattutto di raccontarsi. Forse una ridefinizione continua della propria identità. Un tastarsi il polso. Mi racconto dunque sono.

Leonardo Sciascia girava il mondo – viveva a cavallo tra Parigi, Roma e Regalbuto – ma ambientò le sue storie tutte in Sicilia, metafora del mondo. Philip Roth ha scritto decine di romanzi, ogni tanto si atteggia a intellettuale coscienza della nazione, ma non è mai riuscito a staccarsi veramente dai borghi ebraici del suo New Jersey. Un’identità che non si scolla, non se ne va. Non si scappa. Qualunque cosa fai.

Poi il viaggiare e il fuggire, l’andarsene e il ripartire da zero,  restando però sempre irrimediabilmente siciliani o ebrei. E dunque: il sentirsi sempre estranei, stranieri (sempre Woody Allen che, a cena dalla waspissima famiglia di Annie, improvvisamente si trasforma in un rabbino. Oppure Tonino allampato negli USA in My Name is Tanino di Virzì). Stranieri dovunque tranne che nella propria amata odiata Terra Promessa. Per gli ebrei la propria terra millenaria, fonte di tanti stravolgimenti e morti ammazzati. Per i Siciliani la propria isoletta fottuta, prigione soleggiata e bagnata dal mare.

E infine l’impossibilità del non essere le proprie radici. La beffa della coercizione di sangue. È Coleman Silk che – ne La Macchia Umana di Philip Roth – riesce faticosamente ad affrancarsi dal proprio essere negro. Aveva la pelle così bianca, Coleman Silk, che riuscì a registrarsi all’esercito come bianco. Abbandonò la propria famiglia e mantenne il segreto, raggiungendo tutti i propri obiettivi, finchè il destino beffardo non gli si rivoltò contro: per un malinteso fu espulso dall’Università dove insegnava. Gli studenti e il corpo insegnanti lo accusarono di razzismo. O come – perché no – Mattia Pascal che non riuscì a cambiare identità in Adriano Mehis. Le costrizioni ci si avvinghiano intorno. E millenni di storia che non si lavano via con un colpo di reni personale.

Il risultato? Una personalità collettiva spesso nevrotica, vulnerabile, dissociata. Con molti rischi. Scrive sempre Philip Roth nel suo capolavoro Lamento di Portnoy: Secoli e secoli senza una patria avevano prodotto uomini sgradevoli come il sottoscritto: impauriti, diffidenti, auto denigranti, evirati e corrotti dalla vita nel mondo dei gentili. Erano stati proprio gli ebrei della Diaspora come me a finire a milioni nelle camere a gas senza nemmeno alzare un dito contro i loro persecutori, incapaci perfino di difendere la vita con il proprio sangue”.

Pubblicato su www.pupidizuccaro.com