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Una lettura di “La macchia umana” di Roth

Coleman è la dentro, ora, solo con Faunia, e ciascuno dei due difende l’altro da tutti gli altri. Là dentro ballano, molto probabilmente svestiti, lasciandosi alle spalle il mondo con le sue tribolazioni, in un paradiso non terrestre di terrestre passionalità dove il loro accoppiarsi è il dramma in cui decantano tutte le rabbiose disillusioni della loro vita.
Ricordavo una cosa che aveva detto Faunia – così almeno mi aveva raccontato lui – nell’euforia di una delle loro serate, quando sembravano avere tante cose in comune. Coleman le aveva detto: – Questo non è soltanto sesso, è qualcosa di più, – e in tono reciso lei rispose – No, non è vero. Hai semplicemente dimenticato cos’è il sesso. Questo è sesso. E basta. Non rovinarlo con la pretesa che sia un’altra cosa”.
Chi sono loro adesso? Sono la versione più semplice possibile di se stessi. L’essenza della singolarità. Tutto il dolore raggrumato in passione.

Idealismo e idee estreme, l’intransigenza esistenziale che produce mostri. Coleman Silk ha della vita un’idea ben precisa, e – per lui – non c’è vita se non c’è Libertà.
Libertà, ovvero libertà da tutte le contingenze esterne al proprio unico inimitabile e irripetibile IO individuale. La Libertà e l’Individualismo. Coleman Silk è il banco di prova nientemeno che dei Grandi Valori Americani.

Coleman Silk viene da una famiglia di neri, ma ha la pelle tanto chiara da sembrare un bianco. Si arruola nell’esercito facendosi passare per bianco, si iscrive ad un’università per bianchi e comincia – scivolando quasi naturalmente nella menzogna – comincia a tacere sulla propria razza.

Perché devo passare la mia vita da nero?
Perché devo frequentare un’università per neri e farmi strada all’interno della comunità di colore?
Cosa c’entro IO con la storia dei neri?
Chi me l’ha chiesto se volevo far parte di questo NOI?

Comincia a tacere, a mentire, dunque. Comincia a sviluppare il suo Segreto. Alla fidanzata Steena non dice niente, parla dei suoi in maniera vaga, ma poi la invita a pranzo con la sua famiglia, e Steena scappa quando scopre il suo Segreto.

Coleman allora decide di alzare la posta in gioco. Vuole la libertà, a qualunque costo. Sarà bianco, punto.
Lo comunica alla madre, la cara madre che non gli ha fatto mai mancare niente, che lo ha amato tutta la vita di un affetto sensibile e intelligente, la cara madre che è arrivata a gestire il reparto di infermeria dell’ospedale cittadino “senza nessun altro aiuto che non le proprie competenze professionali”, una persona in gamba, aperta di mente, intelligente e colta, la cara madre, una vedova che ancora sospira il marito morto d’infarto mentre serviva ai tavoli di una carrozza ristorante di prima classe, finito a fare il cameriere dopo che la Grande Depressione lo costrinse a chiudere la sua attività da oculista. Gente intelligente, misurata, smaliziata, a proprio agio nel mondo dei bianchi.

Coleman le comunica: Sarò Bianco, Mi Sposerò. Farò Dei Figli. Avrò La Mia Vita Da Bianco. Per Tutti Io Non Avrò Né Padre Né Madre. Sarò Orfano E Senza Famiglia. E Sarò Bianco.

Capito, mamma? Avrai dei nipotini e non li conoscerai. Hai avuto un figlio, lo hai cresciuto utilizzando le migliori – lo so, mamma, le migliori! – arti materne, lo hai amato nel modo migliore in cui si possa amare un figlio, e lui che fa? Ti abbandona, ti ripudia, scompare, fa perdere le proprie tracce – e per di più te lo “comunica”, come se si trattasse di un’informazione di servizio – e tutto perché si è messo in testa che vuole essere Libero!

Non ti odia, no, lui non odia nessuno. È sempre così calmo e misurato. Ma vuole essere Libero, quindi ciao mamma, saluta tuo figlio che non rivedrai più. Salutalo e non te la prendere troppo se non avrai nemmeno una tomba su cui poterlo piangere.

E lei che fa? Dignità. Rispetta la decisione del figlio, e dice poche frasi grondanti Verità: “Tu ragioni come un prigioniero. Si, Coleman Brutus. Sei bianco come la neve e ragioni come uno schiavo”.

Coleman si sposerà con Iris, alla quale non svelerà mai il suo segreto. Vivrà tutta la vita come un bianco, tacendo a tutti la sua vera storia. A tutti, perfino alla donna che lo conosce nell’intimità e con la quale passerà tutta la vita. Coleman diventerà professore di lettere classiche – la disciplina più bianca di tutte – presso l’università più bianca del New Jersey, spiegando ai suoi allievi la tragedia greca e Omero, soprattutto L’Iliade, il suo poema preferito. L’Iliade delle volontà irresistibili e della ferocia, la ferocia umana e la ferocia dell’esistenza.

Ferocia che in Coleman è come autoimposta, frutto di una scelta deliberata. Una ferocia intellettuale, frutto della mente, della volontà. La ferocia umana che diventa ferocia dell’esistenza. La scelta, l’arbitrio personale, l’essere artefici di sé stessi. I valori americani, L’Occidente tutto, coagulato in Coleman Silk che ripudia sua madre.

Dopo la morte di Iris, e lo scandalo che lo costringe a dimettersi dall’università (Coleman viene accusato di razzismo, ed è un altro tema fondamentale del libro – l’ipocrisia, l’opportunismo, l’orrore del politicamente corretto – un tema che qui ignoriamo) Coleman intreccia a 71 anni una relazione con Faunia, una bidella della sua università con la metà dei suoi anni.

Faunia che scappa di casa appena adolescente per fuggire dalle molestie del patrigno. Faunia che sposa un pazzo reduce dal Vietnam che la picchia, poi divorzia e lui – violento, paranoico, ossessivo – la perseguita. Faunia che perde i due figli in un incendio. Faunia che fa tre lavori per campare. Faunia che è analfabeta, anzi: dice di esserlo ma in realtà non lo è. Come una ripicca contro un mondo che l’ha devastata con la sua ferocia.

Ma Faunia è ancora in piedi, e vive la sua vita con una spaventosa dignità, a 35 anni ha visto tutto lo schifo che la vita può offrire. Non è disillusa, rassegnata, no, molto di più. La sua amarezza dell’esistere ha raggiunto uno stadio superiore. Faunia non spera più niente. Faunia non si stupisce più di niente. Non è che sia apatica, è che la realtà più terribile che si possa conoscere l’ha fatta diventare – come dire – terribilmente realistica. A suon di morsi sulla carne.

La ferocia dell’esistenza si è abbattuta, con singolare violenza, così, tutta su Faunia. Cos’ha fatto per meritarsi questo? Dov’è la libertà per una come Faunia? Cosa cazzo voleva dimostrare Coleman con i suoi ideali? A quale livello di Orrore può arrivare la volontà umana (L’Ideologia? Il Fondamentalismo?) se Coleman è riuscito ad infliggere una ferita così terribile – così premeditata e “razionale” – alla madre?

A Faunia, a lei, la sguattera analfabeta, a lei Coleman rivela il suo segreto. Così, perché per lei il suo Grande Segreto non è niente da giudicare, ma semplicemente l’ennesima cosa stramba che può succedere in questo mondo. L’ennesima assurdità di cui è capace l’essere umano.

Come davanti all’enormità del creato, e della sofferenza umana, e della piccolezza effettiva di ogni uomo, al di là di titanismi intellettualizzanti, vomitevoli idealismi e libertà talmente assolute che non possono esistere, Coleman davanti a lei, davanti a Faunia, la sguattera analfabeta con la metà dei suoi anni, Coleman diventa un bambino. “Tu sei troppo giovane per me” gli dice Faunia. E lui le rivela il suo segreto. Come un bambino che arrossisce per una bugia maldestra.

(Pubblicato su Tutta Colpa della Maestra)

Liberi, cosmopoliti, deicidi

Un uomo che si rispetti non ha una patria.
Una patria è una colla”

Emil Cioran

L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante,    colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte, ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”

Ugo di San Vittore

Il background ebraico di Freud contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’illuminismo.  La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e di disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada alla sua emancipazione e al suo progresso.

“La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm

Abramo è un uomo anziano, ricco e rispettato da tutti. Abita nella città del potere, la città per eccellenza. Ur-Kasdim. Poi arriva Dio e gli ordina di uscire dalla città e andare nel deserto.
Ovvero: pura follia.
Lasciarsi tutto alle spalle e avventurarsi nell’ignoto, ferirsi, scorticarsi, patire la fame e la sete, esporsi alle intemperie del creato. Ma anche: conoscere il mondo, diventare il primo grande patriarca del monotesmo, capostipite del popolo eletto. “Farò di te un grande popolo e ti benedirò – annuncia Dio – renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”.
L’uscita dalla città nel deserto è il movimento fondante dell’ebraismo. L’inizio di millenni di peregrinazioni, vagabondaggi, fughe e persecuzioni.
Per compiere questo sconvolgente salto nel buio c’è bisogno di una cosa sola. La fiducia. Innanzitutto la “fiducia nel tempo”. Il tempo materiale, prettamente umano, quello che fugge e non torna più, la transitorietà, la precarietà. Perchè, come diceva Heiddeger, “per vivere in modo autentico non si può far altro che prendere coscienza della propria mortalità, del proprie essere mortali”. E nella mortalità si compie la grandezza superomistica della filosofia di Nietzsche. Essere immensi nella clausura della ridicola transitorietà umana. Prenderne coscienza, agire di conseguenza, vivere il tempo per ciò che il tempo è.

L’ebraismo può essere letto anche come una sorta di etica laica. Atea addirittura. Basta sostituire la parola “Uomo” a quella di “Dio” ed il gioco è fatto. Almeno così pare leggendo i libri di Moni Ovadia, teatrante bulgaro residente a Milano, “agnostico dubbioso” ebreo e appassionato di cose ebraiche.

I libri di Ovadia sono saggi o raccolte di storielle ebraiche. Il migliore in assoluto è “Vai in te stesso”, pubblicato nel 2002. Le sue idee sono fortemente influenzate dall’insegnamento del filosofo Haim Baharier.

Sono qui a Milano per cercare di farmi un futuro. Da due mesi ho lasciato la Sicilia dei sogni interrotti e ho raggiunto la capitale economica d’Italia per tentare di riprendere il filo. Sono capitato in stanza con un ragazzo che collabora con Ovadia. Ovviamente ho attinto dalla sua libreria, avvicinandomi ancora di più alla cultura del popolo deicida.

La spinta fondamentale del monoteismo ebraico – il primo e più autentico monoteismo – è verso la scoperto dell’uomo in quanto uomo, al di là di ogni sovrastruttura e dominio di forze esterne.

Ovadia di concentra molto sul concetto di idolatria. Che non è altro che “la forma culturale della tirannia – scrive – L’idolo è il mediatore religioso del potere, con cui i potenti si servono della paura ontologica e dell’angoscia esistenziale dell’uomo”. Un grimaldello subliminale con cui i potenti sfruttano l‘horror vacui dell’essere umano. L’idolo è strumento di controllo. “Quella con l’idolo non è una relazione cognitiva bensì una relazione viscerale e rituale, di sottomissione. E come tale perfettamente funzionale a ogni struttura di potere e ad ogni dominio dell’uomo sull’uomo”. Ma non è solo una faccenda politica, ovvero di “potere”. È soprattutto una trappola mentale, un giogo che inibisce la vera umanità e impedisce l’uomo di scoprire la realtà. Un condizionamento che strozza lo spirito critico, la capacità di osservazione. In altre parole, la libertà.

Dice Ovadia: “La libertà tout court è soprattutto libertà dall’idolatria”. Idolo sono tutte le autorità assolute, sclerotizzate, de-umanizzanti. Il denaro può diventare un idolo, così come l’amore, il potere, il sesso, un partito o un personaggio politico, un leader qualunque, un guru, una donna, un uomo, un’aspirazione, un obiettivo, un valore, eccetera eccetera.

Per questo l’ebraismo, nell’interpretazione di Ovadia, è soprattutto individualismo. O meglio, puramente, umanità.

Per questo il vero peccato originale di Adamo ed Eva è stato la “volontà di acquisire la conoscenza mangiando un frutto”. “Quella criminosa stupidaggine spezzò la condizione edenica – scrive Ovadia – La conoscenza non può essere inghiottita, non può essere comprata, la conoscenza deve essere conquistata attraverso il travaglio dell’interiorità che conduce all’ecce homo”.

E dunque, per essere veramente uomini, bisogna seguire all’unico imperativo morale.
Vai a te stesso
.
“L’unico presupposto per costruire la propria libertà”.

Abramo esce dalla città, esce nel deserto, va a se stesso.
Traghettando, di fatto, l’umanità “dall’era dell’idolatria all’era dell’uomo”.

L’ebraismo, per Ovadia, ha una decisa vocazione “anarchico-libertaria”. L’emblema più lampante è l’istituzione del sabato, dello Shabbat, il riposo senza se e senza ma, a prescindere da ogni costrizione e contingenza esterna. ”La maestà dello Shabbat irradia un insegnamento fondante per il futuro della nostra libertà: la terra appartiene al Santo Benedetto e noi siamo ospiti su di essa, la proprietà è transitoria. Non c’è diritto di possesso, vi è un solo modo per noi di abitare la terra, qualsiasi terra: da stranieri!”.

Libertà, individualismo e – eccoci – cosmopolitismo. Basta dire che in yiddish il concetto di “straniero” e di “residente” si fondono in un unico termine. Gher. Sembra un ossimoro lessicale. Invece è una sintesi perfetta, una dichiarazione di intenti, una concezione dell’esistenza.

Come si dice stigghiola in yiddish?

“Gli abitanti della Città (Palermo ndr) credono di essere estremamente complicati. Si offendono delle semplificazioni che li riguardano. Esiste un genere di imbarazzata suscettibilità che accomuna isolani ed ebrei, due popoli che hanno fatto del senso di colpa un tratto caratteriale collettivo costante. A pensarci bene però, gli isolani sanno benissimo a cosa è dovuto il loro senso di colpa: credono di essere in debito nei confronti del mondo perché dalla loro isola la mafia si è ramificata nel mondo e lo ha impestato. Gli isolani, anche quelli onesti, nel loro profondo sentono di appartenere a una stirpe di untori. Sono persino  pronti ad ammetterlo, e anzi sono i primi a parlare malissimo della loro Città, proprio come gli ebrei parlano male di sé stessi. Allo stesso tempo però – ancora una volta: come gli ebrei – non accettano che siano gli altri a parlare male di loro. Pur non ritenendosi all’altezza del resto del mondo non ritengono il mondo alla loro altezza”

Roberto Alajmo,” Palermo è una cipolla”, 200

“Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me”.

Io&annie, Woody Allen, 1977

Forzata o no, il paragone tra il popolo ebreo e quello siciliano mi affascina. Ok, hanno passati molto diversi, bisogna considerare i diversi meccanismi storici. Però qualcosa di comune c’è. Entrambi sono popoli che da sempre fanno a pugni con la propria identità. Che vivono il tormento di essere ciò che non si vuol essere, ma che spesso si lasciano andare all’orgoglio cieco di essere ciò che si è. Gli ebrei come i siciliani? Perché no.  Il popolo più perseguitato della storia contro il popolo di cui la storia è un susseguirsi di dominazioni, oppressioni, prepotenze. Entrambi, indubbiamente, sono Senza Patria.

Entrambi hanno uno humor piuttosto efferato, brutale, spesso giudicato “di cattivo gusto”. L’altra faccia della medaglia di un pessimismo che è radicato, viscerale, senza requie. È Verga con i suoi miti neri e terrosi, i suoi teoremi dell’ostrica, Pirandello con il suo sguardo angosciato, Tomasi di Lampedusa con la sua sfiducia perenne. Del pessimismo ebraico manco c’è bisogno di fare esempi. È un luogo comune ben rappresentato da Woody Allen nel suo ultimo film “Basta che funzioni”, con il protagonista che si sveglia nel cuore della notte gridando L’Orrore, L’Orrore.

Entrambi i popoli hanno una grande letteratura, un grande cinema, una grande narrazione. Entrambi hanno sentito nelle budella l’urgenza di raccontare e soprattutto di raccontarsi. Forse una ridefinizione continua della propria identità. Un tastarsi il polso. Mi racconto dunque sono.

Leonardo Sciascia girava il mondo – viveva a cavallo tra Parigi, Roma e Regalbuto – ma ambientò le sue storie tutte in Sicilia, metafora del mondo. Philip Roth ha scritto decine di romanzi, ogni tanto si atteggia a intellettuale coscienza della nazione, ma non è mai riuscito a staccarsi veramente dai borghi ebraici del suo New Jersey. Un’identità che non si scolla, non se ne va. Non si scappa. Qualunque cosa fai.

Poi il viaggiare e il fuggire, l’andarsene e il ripartire da zero,  restando però sempre irrimediabilmente siciliani o ebrei. E dunque: il sentirsi sempre estranei, stranieri (sempre Woody Allen che, a cena dalla waspissima famiglia di Annie, improvvisamente si trasforma in un rabbino. Oppure Tonino allampato negli USA in My Name is Tanino di Virzì). Stranieri dovunque tranne che nella propria amata odiata Terra Promessa. Per gli ebrei la propria terra millenaria, fonte di tanti stravolgimenti e morti ammazzati. Per i Siciliani la propria isoletta fottuta, prigione soleggiata e bagnata dal mare.

E infine l’impossibilità del non essere le proprie radici. La beffa della coercizione di sangue. È Coleman Silk che – ne La Macchia Umana di Philip Roth – riesce faticosamente ad affrancarsi dal proprio essere negro. Aveva la pelle così bianca, Coleman Silk, che riuscì a registrarsi all’esercito come bianco. Abbandonò la propria famiglia e mantenne il segreto, raggiungendo tutti i propri obiettivi, finchè il destino beffardo non gli si rivoltò contro: per un malinteso fu espulso dall’Università dove insegnava. Gli studenti e il corpo insegnanti lo accusarono di razzismo. O come – perché no – Mattia Pascal che non riuscì a cambiare identità in Adriano Mehis. Le costrizioni ci si avvinghiano intorno. E millenni di storia che non si lavano via con un colpo di reni personale.

Il risultato? Una personalità collettiva spesso nevrotica, vulnerabile, dissociata. Con molti rischi. Scrive sempre Philip Roth nel suo capolavoro Lamento di Portnoy: Secoli e secoli senza una patria avevano prodotto uomini sgradevoli come il sottoscritto: impauriti, diffidenti, auto denigranti, evirati e corrotti dalla vita nel mondo dei gentili. Erano stati proprio gli ebrei della Diaspora come me a finire a milioni nelle camere a gas senza nemmeno alzare un dito contro i loro persecutori, incapaci perfino di difendere la vita con il proprio sangue”.

Pubblicato su www.pupidizuccaro.com