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Il teatro di Sabbath, Philip Roth

Che cosa comunica di sè l’artista tragico? Non è appunto la mancanza di paura davanti al terribile e al problematico, ciò che egli ci mostra?…Il coraggio e la libertà del sentimento di fronte a un possente nemico, a una sublime avversità, a un problema che suscita orrore – questo è lo stato vittorioso che l’artista tragico sceglie ed esalta. Davanti alla tragedia il lato guerriero della nostra anima celebra i suoi saturnali; chi è avvezzo al dolore, chi va in cerca di dolore, l’uomo eroico, con la tragedia celebra la sua esistenza – a lui solo l’artista tragico mesce un sorso di questa dolcissima crudeltà.

Crepuscolo degli Idoli, Friedrich Nietzsche

(Il senso della vita)

Ho condotto una vita stupida: e allora? Chiunque abbia un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perchè non ne esistono di altro genere. Non è un fatto personale. Ciò nondimeno, Michey Sabbath, si proprio quel Michey Sabbath, uno di quella scelta compagnia di settantasette miliardi di imbecilli senza pari che costituiscono la storia umana, aveva gli occhi colmi di lacrime infantili mentre dava l’addio alla propria una e unica unicità con un “Chissenefrega” sconsolato e farfugliato.

 (Il Frate Chiavatore)

La voce che gli consigliava di avere pazienza non riusciva più di tanto a farsi sentire. Tipi materni. Non poteva farsela sfuggire. In vita sua non aveva mai potuto lasciar andare una nuova scoperta.  Il cuore della seduzione consiste nella perseveranza.  La perseveranza, l’ideale dei gesuiti. L’ottanta per cento delle donne cede a una fortissima pressione se la pressione  è persistente. Bisogna dedicarsi a fottere nello stesso modo in cui un monaco si dedica a Dio. La maggior parte degli uomini deve sistemare le scopate attorno ai bordi di quelle che definisce le faccende più importanti: far soldi, potere, politica, moda, e Dio solo sa cos’altro…L’ascetico Michey Sabbath, che ancora ci dà dentro, a più di sessant’anni. Il Frate Chiavatore. L’Evangelista della Fornicazione. Ad maiorem Dei gloriam.

(New York)

Si era perso la trasformazione di New York in un luogo completamente avverso alla buona salute e al vivere civile, una città che all’inizio degli anni Novanta aveva portato alla perfezione l’arte di uccidere l’anima…New York era una città andata completamente in malora, dove tranne la metropolitana non c’era assolutamente più niente di sotterraneo. Era la città in cui si poteva ottenere, a volte senza la minima fatica, a volte a un prezzo notevole, il peggio di tutto…Una vetrina della degradazione, traboccante del profluvio degli slums, delle prigioni e degli ospedali psichiatrici di almeno due emisferi, tiranneggiata da criminali, maniaci e da bande di ragazzini che avrebbero buttato all’aria il mondo per un paio di scarpe da basket. Una città dove i pochi che si prendevano il disturbo di affrontare la vita con serietà sapevano di sopravvivere a dispetto di tutto ciò che era inumano, o forse troppo umano: si rabbrividiva a pensare che tutto ciò che nella città risultava atroce in realtà mostrava l’umanità di massa come veramente desiderava essere.

Sabbath, poi, non si beveva tutte quelle storielle che descrivevano New York come l’inferno, prima di tutto perchè ogni grande città è l’Inferno: secondo, perchè se non ti interessano le più vistose depravazioni del genere inumano, allora cosa diavolo ci fai a New York?

(Vita spericolata)

Il problema rappresentato dalla sua vita non sarebbe mai stato risolto. Non era un genere di vita con scopi precisi, e i mezzi per realizzarli, una vita in cui fosse possibile dire: “Questo è essenziale e questo no, questo non lo faccio perchè non posso sopportarlo, e questo invece lo faccio perchè posso sopportarlo”. Non c’era modo di districare un’esistenza in cui la ribellione era l’unica disciplina, e di cui costituiva l’unico piacere.

 (Nessuna purezza)

–        Idioti ideologici! – proclamò il ragazzo in nero – Il terzo grande fallimento ideologico del ventesimo secolo. È sempre la solita storia. Fascismo. Comunismo. Femminismo. Tutti progettati per indurre un gruppo di persone a scagliarsi contro un altro gruppo. I bravi ariani contro le altre razze cattive che li opprimono. I bravi poveri contro i ricchi cattivi che li opprimono. Le brave donne contro gli uomini cattivi che le opprimono. Il depositario dell’ideologia è puro, buono e pulito, e gli altri sono malvagi. Ma lo sai tu chi è davvero malvagio? Chiunque pensi di essere puro è malvagio! …Non esiste la purezza! Non esiste! Non può esistere! Non deve e non dovrebbe esistere! Perchè è una menzogna! La sua ideologia e come tutte le altre ideologie, basata su una menzogna! Tirannia ideologica. È il male del secolo. L’ideologia istituzionalizza la patologia. Tra vent’anni ci sarà una nuova ideologia. La gente contro i cani. La nostra vita da gente è colpa dei cani. E poi, dopo i cani, cosa ci sarà? A chi daremo la colpa di aver corrotto la nostra purezza?

Il teatro di Sabbath, Philip Roth, 1995

Liberi, cosmopoliti, deicidi

Un uomo che si rispetti non ha una patria.
Una patria è una colla”

Emil Cioran

L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante,    colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte, ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”

Ugo di San Vittore

Il background ebraico di Freud contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’illuminismo.  La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e di disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada alla sua emancipazione e al suo progresso.

“La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm

Abramo è un uomo anziano, ricco e rispettato da tutti. Abita nella città del potere, la città per eccellenza. Ur-Kasdim. Poi arriva Dio e gli ordina di uscire dalla città e andare nel deserto.
Ovvero: pura follia.
Lasciarsi tutto alle spalle e avventurarsi nell’ignoto, ferirsi, scorticarsi, patire la fame e la sete, esporsi alle intemperie del creato. Ma anche: conoscere il mondo, diventare il primo grande patriarca del monotesmo, capostipite del popolo eletto. “Farò di te un grande popolo e ti benedirò – annuncia Dio – renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”.
L’uscita dalla città nel deserto è il movimento fondante dell’ebraismo. L’inizio di millenni di peregrinazioni, vagabondaggi, fughe e persecuzioni.
Per compiere questo sconvolgente salto nel buio c’è bisogno di una cosa sola. La fiducia. Innanzitutto la “fiducia nel tempo”. Il tempo materiale, prettamente umano, quello che fugge e non torna più, la transitorietà, la precarietà. Perchè, come diceva Heiddeger, “per vivere in modo autentico non si può far altro che prendere coscienza della propria mortalità, del proprie essere mortali”. E nella mortalità si compie la grandezza superomistica della filosofia di Nietzsche. Essere immensi nella clausura della ridicola transitorietà umana. Prenderne coscienza, agire di conseguenza, vivere il tempo per ciò che il tempo è.

L’ebraismo può essere letto anche come una sorta di etica laica. Atea addirittura. Basta sostituire la parola “Uomo” a quella di “Dio” ed il gioco è fatto. Almeno così pare leggendo i libri di Moni Ovadia, teatrante bulgaro residente a Milano, “agnostico dubbioso” ebreo e appassionato di cose ebraiche.

I libri di Ovadia sono saggi o raccolte di storielle ebraiche. Il migliore in assoluto è “Vai in te stesso”, pubblicato nel 2002. Le sue idee sono fortemente influenzate dall’insegnamento del filosofo Haim Baharier.

Sono qui a Milano per cercare di farmi un futuro. Da due mesi ho lasciato la Sicilia dei sogni interrotti e ho raggiunto la capitale economica d’Italia per tentare di riprendere il filo. Sono capitato in stanza con un ragazzo che collabora con Ovadia. Ovviamente ho attinto dalla sua libreria, avvicinandomi ancora di più alla cultura del popolo deicida.

La spinta fondamentale del monoteismo ebraico – il primo e più autentico monoteismo – è verso la scoperto dell’uomo in quanto uomo, al di là di ogni sovrastruttura e dominio di forze esterne.

Ovadia di concentra molto sul concetto di idolatria. Che non è altro che “la forma culturale della tirannia – scrive – L’idolo è il mediatore religioso del potere, con cui i potenti si servono della paura ontologica e dell’angoscia esistenziale dell’uomo”. Un grimaldello subliminale con cui i potenti sfruttano l‘horror vacui dell’essere umano. L’idolo è strumento di controllo. “Quella con l’idolo non è una relazione cognitiva bensì una relazione viscerale e rituale, di sottomissione. E come tale perfettamente funzionale a ogni struttura di potere e ad ogni dominio dell’uomo sull’uomo”. Ma non è solo una faccenda politica, ovvero di “potere”. È soprattutto una trappola mentale, un giogo che inibisce la vera umanità e impedisce l’uomo di scoprire la realtà. Un condizionamento che strozza lo spirito critico, la capacità di osservazione. In altre parole, la libertà.

Dice Ovadia: “La libertà tout court è soprattutto libertà dall’idolatria”. Idolo sono tutte le autorità assolute, sclerotizzate, de-umanizzanti. Il denaro può diventare un idolo, così come l’amore, il potere, il sesso, un partito o un personaggio politico, un leader qualunque, un guru, una donna, un uomo, un’aspirazione, un obiettivo, un valore, eccetera eccetera.

Per questo l’ebraismo, nell’interpretazione di Ovadia, è soprattutto individualismo. O meglio, puramente, umanità.

Per questo il vero peccato originale di Adamo ed Eva è stato la “volontà di acquisire la conoscenza mangiando un frutto”. “Quella criminosa stupidaggine spezzò la condizione edenica – scrive Ovadia – La conoscenza non può essere inghiottita, non può essere comprata, la conoscenza deve essere conquistata attraverso il travaglio dell’interiorità che conduce all’ecce homo”.

E dunque, per essere veramente uomini, bisogna seguire all’unico imperativo morale.
Vai a te stesso
.
“L’unico presupposto per costruire la propria libertà”.

Abramo esce dalla città, esce nel deserto, va a se stesso.
Traghettando, di fatto, l’umanità “dall’era dell’idolatria all’era dell’uomo”.

L’ebraismo, per Ovadia, ha una decisa vocazione “anarchico-libertaria”. L’emblema più lampante è l’istituzione del sabato, dello Shabbat, il riposo senza se e senza ma, a prescindere da ogni costrizione e contingenza esterna. ”La maestà dello Shabbat irradia un insegnamento fondante per il futuro della nostra libertà: la terra appartiene al Santo Benedetto e noi siamo ospiti su di essa, la proprietà è transitoria. Non c’è diritto di possesso, vi è un solo modo per noi di abitare la terra, qualsiasi terra: da stranieri!”.

Libertà, individualismo e – eccoci – cosmopolitismo. Basta dire che in yiddish il concetto di “straniero” e di “residente” si fondono in un unico termine. Gher. Sembra un ossimoro lessicale. Invece è una sintesi perfetta, una dichiarazione di intenti, una concezione dell’esistenza.

Come San Sebastiano

Tutti quanti non fanno altro che rinfacciarmi i miei difetti. E io li sto a sentire avidamente, pronto a prenderli in parola, e a dolermene, offendermi. Privo di stabilità metafisica, un uomo come me è il San Sebastiano dei critici.

Il dono di Humbolt, Saul Bellow

–  Il modo in cui disapprovi la tua vita! Perché fai così? Non serve a niente che un uomo come te disapprovi tanto la propria vita. Sembri provare un piacere particolare, una sorta di orgoglio a fare di te stesso il bersaglio del tuo bizzarro senso dell’umorismo. Non credo che tu voglia davvero arricchire la tua vita. Ogni cosa che dici la distorci in un modo o nell’altro fino a farla diventare ridicola. Per tutto il giorno la stessa solfa. Per qualche curioso motivo, tutto è ironia e autodeprezzazione. Autodeprezzazione?
– Autodeprecazione. Autoirrisione.
– Esatto! E sei una persona estremamente intelligente, il che rende la cosa ancor più sgradevole!…
– …l’autodeprecazione è, in fin dei conti, una classica forma di umorismo ebraico.
Non umorismo ebraico! No! Umorismo da ghetto!

Lamento di Portnoy, Philip Roth