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Liberi, cosmopoliti, deicidi

Un uomo che si rispetti non ha una patria.
Una patria è una colla”

Emil Cioran

L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante,    colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte, ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”

Ugo di San Vittore

Il background ebraico di Freud contribuì a fargli abbracciare lo spirito dell’illuminismo.  La stessa tradizione ebraica era una tradizione di ragione e di disciplina intellettuale e, inoltre, una minoranza disprezzata come quella ebraica aveva un forte interesse emotivo a sconfiggere i poteri delle tenebre, dell’irrazionalità, della superstizione, che sbarravano la strada alla sua emancipazione e al suo progresso.

“La missione di Sigmund Freud”, Eric Fromm

Abramo è un uomo anziano, ricco e rispettato da tutti. Abita nella città del potere, la città per eccellenza. Ur-Kasdim. Poi arriva Dio e gli ordina di uscire dalla città e andare nel deserto.
Ovvero: pura follia.
Lasciarsi tutto alle spalle e avventurarsi nell’ignoto, ferirsi, scorticarsi, patire la fame e la sete, esporsi alle intemperie del creato. Ma anche: conoscere il mondo, diventare il primo grande patriarca del monotesmo, capostipite del popolo eletto. “Farò di te un grande popolo e ti benedirò – annuncia Dio – renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”.
L’uscita dalla città nel deserto è il movimento fondante dell’ebraismo. L’inizio di millenni di peregrinazioni, vagabondaggi, fughe e persecuzioni.
Per compiere questo sconvolgente salto nel buio c’è bisogno di una cosa sola. La fiducia. Innanzitutto la “fiducia nel tempo”. Il tempo materiale, prettamente umano, quello che fugge e non torna più, la transitorietà, la precarietà. Perchè, come diceva Heiddeger, “per vivere in modo autentico non si può far altro che prendere coscienza della propria mortalità, del proprie essere mortali”. E nella mortalità si compie la grandezza superomistica della filosofia di Nietzsche. Essere immensi nella clausura della ridicola transitorietà umana. Prenderne coscienza, agire di conseguenza, vivere il tempo per ciò che il tempo è.

L’ebraismo può essere letto anche come una sorta di etica laica. Atea addirittura. Basta sostituire la parola “Uomo” a quella di “Dio” ed il gioco è fatto. Almeno così pare leggendo i libri di Moni Ovadia, teatrante bulgaro residente a Milano, “agnostico dubbioso” ebreo e appassionato di cose ebraiche.

I libri di Ovadia sono saggi o raccolte di storielle ebraiche. Il migliore in assoluto è “Vai in te stesso”, pubblicato nel 2002. Le sue idee sono fortemente influenzate dall’insegnamento del filosofo Haim Baharier.

Sono qui a Milano per cercare di farmi un futuro. Da due mesi ho lasciato la Sicilia dei sogni interrotti e ho raggiunto la capitale economica d’Italia per tentare di riprendere il filo. Sono capitato in stanza con un ragazzo che collabora con Ovadia. Ovviamente ho attinto dalla sua libreria, avvicinandomi ancora di più alla cultura del popolo deicida.

La spinta fondamentale del monoteismo ebraico – il primo e più autentico monoteismo – è verso la scoperto dell’uomo in quanto uomo, al di là di ogni sovrastruttura e dominio di forze esterne.

Ovadia di concentra molto sul concetto di idolatria. Che non è altro che “la forma culturale della tirannia – scrive – L’idolo è il mediatore religioso del potere, con cui i potenti si servono della paura ontologica e dell’angoscia esistenziale dell’uomo”. Un grimaldello subliminale con cui i potenti sfruttano l‘horror vacui dell’essere umano. L’idolo è strumento di controllo. “Quella con l’idolo non è una relazione cognitiva bensì una relazione viscerale e rituale, di sottomissione. E come tale perfettamente funzionale a ogni struttura di potere e ad ogni dominio dell’uomo sull’uomo”. Ma non è solo una faccenda politica, ovvero di “potere”. È soprattutto una trappola mentale, un giogo che inibisce la vera umanità e impedisce l’uomo di scoprire la realtà. Un condizionamento che strozza lo spirito critico, la capacità di osservazione. In altre parole, la libertà.

Dice Ovadia: “La libertà tout court è soprattutto libertà dall’idolatria”. Idolo sono tutte le autorità assolute, sclerotizzate, de-umanizzanti. Il denaro può diventare un idolo, così come l’amore, il potere, il sesso, un partito o un personaggio politico, un leader qualunque, un guru, una donna, un uomo, un’aspirazione, un obiettivo, un valore, eccetera eccetera.

Per questo l’ebraismo, nell’interpretazione di Ovadia, è soprattutto individualismo. O meglio, puramente, umanità.

Per questo il vero peccato originale di Adamo ed Eva è stato la “volontà di acquisire la conoscenza mangiando un frutto”. “Quella criminosa stupidaggine spezzò la condizione edenica – scrive Ovadia – La conoscenza non può essere inghiottita, non può essere comprata, la conoscenza deve essere conquistata attraverso il travaglio dell’interiorità che conduce all’ecce homo”.

E dunque, per essere veramente uomini, bisogna seguire all’unico imperativo morale.
Vai a te stesso
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“L’unico presupposto per costruire la propria libertà”.

Abramo esce dalla città, esce nel deserto, va a se stesso.
Traghettando, di fatto, l’umanità “dall’era dell’idolatria all’era dell’uomo”.

L’ebraismo, per Ovadia, ha una decisa vocazione “anarchico-libertaria”. L’emblema più lampante è l’istituzione del sabato, dello Shabbat, il riposo senza se e senza ma, a prescindere da ogni costrizione e contingenza esterna. ”La maestà dello Shabbat irradia un insegnamento fondante per il futuro della nostra libertà: la terra appartiene al Santo Benedetto e noi siamo ospiti su di essa, la proprietà è transitoria. Non c’è diritto di possesso, vi è un solo modo per noi di abitare la terra, qualsiasi terra: da stranieri!”.

Libertà, individualismo e – eccoci – cosmopolitismo. Basta dire che in yiddish il concetto di “straniero” e di “residente” si fondono in un unico termine. Gher. Sembra un ossimoro lessicale. Invece è una sintesi perfetta, una dichiarazione di intenti, una concezione dell’esistenza.