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“L’invenzione della virilità: politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea”, Sandro Bellassai, 2011

Leggi qui la recensione per Libido Legendi, di seguito un post sullo stesso libro pubblicato sul blog Scriviamo!

Ultimi decenni dell’Ottocento, società occidentale. La rivoluzione industriale prende piede praticamente ovunque. 
Meccanizzazione, automatizzazione, fine dell’artigianato, del bracciantesimo e della manualità.

Lavorare con le mani, lavorare col corpo, lasciare un segno sulla natura grazie alla propria forza fisica, diventa sempre di più un vezzo, un capriccio, qualcosa di fondamentalmente e definitivamente inutile.

L’uomo comincia a lavorare in fabbrica o in ufficio, la sua energia forza fisica vigore non ha più sbocchi in cui incanalarsi, modi di esprimersi.

La forza virile, la mascolinità, la tempra, la superiorità fisica su cui si erano giustificati millenni di patriarcato e fallocentrismo – pian piano, pezzo dopo pezzo – perde la propria funzione, il proprio ruolo all’interno del mondo.

Non ha più senso essere forti, virili, mascolini. Tanto, ormai, ci sono le macchine che fanno tutto.

E quel che non ha più senso all’interno del mondo – ma che resta, come retaggio nostalgico, abitudine che è difficile dimenticare, rievocazione di tempi passati e distortamente gloriosi – diventa immediatamente posa, esibizione, ostentazione.

Nasce il “virilismo novecentesco”.

Così lo chiama Sandro Bellassai, che insegna storia contemporanea all’Università di Bologna, autore del libro L’invenzione della virilità: politica e immaginario maschile (Carrocci, pp. 180, euro 17). Puoi leggere qui la mia recensione.

Non è un caso, ad esempio, che gli ultimi decenni dell’Ottocento vedono il fiorire di palestre e associazioni di ginnastica.
Le prime Olimpiadi moderne sono del 1896.

Nasce un nuovo culto del corpo, l’attenzione per lo sviluppo della muscolatura, per creare una macchina perfetta che non serve a niente (proprio a niente: il corpo maschile energico tonico, pieno di forza propulsiva, non serve più nemmeno per la guerra).

Qui ritroviamo alcune dinamiche che sono caratteristiche della modernità e in cui si inciampa, come un reticolo vischioso, al giorno d’oggi, nella vita di ogni giorno:
1) Si parla troppo di qualcosa quando quel qualcosa non esiste più. O quasi.
2)
 L’ostentazione di qualcosa nasce quando si ha il dubbio se questa cosa esiste o no.

Ma torniamo a fine ottocento.

Viene a mancare la legittimazione della superiorità dell’uomo basata sulla sua forza fisica e intanto – parallelamente, ma mica tanto – si registrano le prime rivendicazioni femministe.
E – questa è la cosa importante – non più casi isolati, che possono essere trattati e neutralizzati come “singole eresie”, ma donne che si organizzano collettivamente, e che sfruttano – a ben vedere – tutti gli strumenti della nuova società democratica basata sul suffragio universale in cui i media e l’opinione pubblica hanno un ruolo centrale.

Femminismo e svilimento della forza fisica.
Uno, due.
E l’uomo è ko.

Il “virilismo novecentesco” è – dichiara Bellassai al Venerdì di Repubblica – “l’idea di rilanciare i tratti essenziali della virilità: la forza, il coraggio, la disposizione al comando”.

Rilanciarli, anche se non hanno più senso di esistere. Rilanciarli come semplice scenografia, buffonata, impalcatura di cartapesta. Ingozzarsi di simboli e di niente più. Simboli di qualcosa che non c’è più.

In Italia – continua – un esempio è stato il fascismo.
“Il fascismo fa di questo rilancio un programma politico esplicito: vuole ridare autorità alla figura maschile all’interno della famiglia, espellere le donne dal mercato del lavoro, restituire carattere guerriero ai maschi italiani. Gobetti diceva che il fascismo era l’autobiografia della nazione. Io, parafrasando, dico che l’autobiografia della nazione è il virilismo.
Basta pensare alle magliette Italians do it better diventato fenomeno di costume con Madonna. Poi ci sono il mito del bagnino romagnolo, del latin lover, una serie di riferimenti più o meno mitologici, più o meno frivoli, ma sempre nella stessa direzione: di un primato italiano dal punto di vista virile”.

Negli anni ’60 e ’70, secondo Bellassai, il mito virile italiano si frantuma con l’avanzare sociale, mediatico e culturale del femminismo.
Il virilismo diventa materia di critica e opposizione perfino da parte di molti maschi che condividono uno o più elementi del femminismo.
Le donne cominciano ad entrare in tutte le sfere della società. Studiano all’università, diventano medici, avvocati, magistrati, fanno politica, assumono ruoli dirigenziali.
Adesso, anche se permane una supremazia maschile nei ruoli chiave della società, il virilismo ha perso  per così dire la sua “legittimazione retorica indiscutibile”.

Negli anni ’80 e ’90 i maschi sono smarriti, esposti, nudi.
Per Bellassai i media i media rappresentano bene questa condizione, con la pubblicità e il cinema, e fa l’esempio del film Full Monty del 1997, in cui un gruppo di operai rimasti disoccupati decidono di diventare spogliarellisti.
“I protagonisti sono operai che hanno perso il lavoro e quindi hanno fallito nella loro identità maschile di padri e mariti. Questi uomini sono ormai nudi. E però giocano, con una specie di geniale mossa del cavallo, su questa nudità: si espongono, nudi anche nel loro corpo, allo sguardo femminile. C’è un rovesciamento: si scoprono oggetto del desiderio, non più soggetti desideranti”.

A questo si abbina la diffusione, anche in Italia, di riviste come Men’s Healt, che “mostra l’affermarsi di un mercato per maschi in cerca di rassicurazioni. Il latin lover o il bagnino di trent’anni fa si sarebbe vergognato di ricorrere a un pronto soccorso che svela I dieci segreti per farla impazzire a letto”.

Ma il virilismo resta ancora in circolo.
Cento anni di storia non sono niente per le scorie simboliche,
le fissazioni del passato,
le convinzioni senza più nessuna giustificazione,
le idee ficcate in testa per pura pigrizia e conformismo.

I rivolgimenti sociali, così frenetici, degli ultimi due secoli, hanno portato l’uomo di oggi ad essere intossicato da miriadi di scorie di questo tipo.

Ecco quindi che, come in un maelstrom solido-liquido, o uno sciacquone che gira all’infinito, si mescolano, in ordine sparso:

il Femminicidio e il Non Ti Permettere di Mancarmi di Rispetto;
i quattro ragazzini che afferrano, picchiano e stuprano una ragazzina;
la ragazzina che si ammazza perchè tutti dicono che è Una Facile;
la cosa che finisce su Facebook;
l’appellativo Troia Puttana Zoccola Ninfomane senza il corrispettivo maschile;
quelle che Io Aspetto il Principe Azzurro;
Non Ci Sono Più Gli Uomini Di Una Volta;
Non C’è Più Cavalleria;
Ci Sono Troppi Maschi e Troppi Pochi Uomini;
Perchè A Me Piace Piacere (detto da lui o da lei);
Per Uno/a Così Io Farei Di Tutto;
Mourinho e l’uomo di poche parole;
Clint Eastwood e Sergio Leone;
Terence Hill in Lo Chiamavano Trinità;
il cantante dei Manowar, il culturista dall’ugola d’oro Eric Adams;
Woman  Be My Slave dei Manowar;
il Defender Of The Steel e in generale tutta quella fazione di Heavy Metal;
cose del genere che ci sono pure nel Rap, Hip Hop, Dance, Pop e Musica Neomelodica Partenopea;
le rockband e il fenomeno delle groupies;
Berlusconi e l’onnipotenza plutocratica machista;
Beppe Grillo che attraversa a nuoto lo Stretto di Messina;
il multitasking furbo e finto-simpatico e le maniche di camicia di Renzi;
quelli che ce l’hanno fatta;
lo Yuppie meneghino di Piazza Affari e la Milano da Bere;
i giovanotti in cerca di figa;
i posti in cui c’è Un Sacco di Figa;
il concetto di Figa di Legno;
la modella americana Terry Broome che spara e uccide il playboy romano Francesco D’Alessio;
il concetto di Playboy Romano;

(continua)

Il maschio in crisi

Generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza

Vittorino Andreoli su L’Huffington Post

Il pathos nell’atteggiamento non appartiene alla grandezza; chi ha bisogno di atteggiamenti è falso…Attenzione alle  persone pittoresche!

Ecce homo, Friedrich Nietzsche

(“Sii uomo”)

Gli uomini sono molto più preoccupati e impegnati ad affermare la propria maschilità di quanto siano le donne nei confronti della loro femminilità. Queste hanno dimostrato chiaramente negli ultimi decenni che, pur non riconoscendosi nei ruoli tradizionali e pur essendo spesso accusate di non avere più il fascino e la seduttività del passato, non sono particolarmente preoccupate di perdere la propria femminilità. Questo fa presupporre che le donne percepiscano la femminilità come un dato naturale e sostanziale, che non viene scalfito dai cambiamenti comportamentali né minacciato dall’assunzione di nuovi ruoli, perché è vissuto come intrinseco al loro corpo. (…)

Come afferma Elisabeth Badinter: “L’ordine tanto spesso udito: “Sii uomo” implica che la cosa non va da sé e che la virilità non è poi così naturale come si vorrebbe credere. Essere uomo comporta un lavoro, uno sforzo che non sembra richiesto alla donna”

La costante preoccupazione nel dover difendere e ribadire la maschilità fa presupporre che questa sia percepita, a livello sociale e individuale, più come una costruzione culturale che come una condizione naturale.

Tra le diverse risposte “adattive” alla crisi della virilità, alcuni includono anche la tendenza da parte maschile ad appropriarsi degli attributi femminili, senza però riuscire a farli completamente propri, come dimostrano i fenomeni sempre più diffusi della transessualità e del travestitismo. Sembra infatti che la segreta paura di assomigliare alla donna, che molti riconoscono come elemento intrinseco all’identità maschile, sia stata progressivamente affiancata da un’invidia del potere femminile, ritenuta una “spia” della crisi della virilità.

Timore dell’omosessualità, molto più sviluppato negli uomini che nelle donne. Inoltre, sostiene Roberto Stoller, molti comportamenti che nella maggior parte delle società vengono considerati “naturalmente” maschili hanno, in realtà, una funzione difensiva nei confronti di una serie di paure, oltre a quella dell’omosessualità: paura delle donne, paura di essere troppo femminili, paura della propria passività. Perciò troviamo spesso, nell’uomo comune, atteggiamenti di ostentazione del coraggio, della forza e dell’aggressività, di svalutazione delle donne, dei loro interessi e comportamenti, e di solidarietà con gli altri uomini, purchè non siano omosessuali, proprio sulla base di questi principi.

(Il maschio tenero)

Emerge una figura maschile meno rigida e monolitica e, senza dubbio, più complessa rispetto allo stereotipo che ha caratterizzato l’epoca moderna. Una figura che già molti autori tentano di delineare, cercando anche di intravederne il percorso di crescita.
Sostanzialmente, esistono due filoni nell’analisi e nella letteratura sulla nuova, o nuove, maschilità. Da un lato gli autori come Robert Bly, che identificano il superamento della crisi del maschile con il recupero e la riappropriazione delle caratteristiche e degli archetipi ritenuti propri della maschilità; dall’altro lato, gli autori che sostengono che la ridefinizione dell’uomo debba contemplare una sorta di sintesi fra le caratteristiche del maschio tradizionale e alcuni aspetti, considerati più femminili, a cui gli uomini oggi si sono avvicinati.
Coloro che auspicano un recupero delle caratteristiche maschili partono dal presupposto che la relativa “femminilizzazione” degli uomini avvenuta a partire dagli anni Settanta abbia creato una generazione, quella dei cosiddetti maschi “teneri”, che, sebbene abbiano sviluppato caratteristiche estremamente nobili, sintetizzate in un atteggiamento gentile nei confronti degli altri e dell’esistenza, non si sono comunque sentiti più liberi, né più realizzati. Secondo Bly, “molti di questi uomini non sono felici. Si fa presto a notare la loro mancanza di energiaSono capace di preservare la vita, ma non esattamente di darla. Ironia della sorte, spesso li si vede al fianco di donne forti che sprigionano invece una vitalità decisa”.
E infine, sempre sugli uomini “teneri”: “Parte della sofferenza derivava da un senso di lontananza dal padre, che avvertivano in maniera acuta, ma il dolore scaturiva anche da matrimoni e relazioni problematiche. Avevano imparato a essere ricettivi, ma la ricettività non bastava a sostenere l’unione nei momenti difficili (…) Un maschio “tenero” sapeva dire: “Sento il tuo dolore e considero la tua vita importante quanto la mia, avrò cura di te e ti offrirò conforto”, ma non era in grado di affermare ciò che lui stesso voleva”.

(Possibilità future: il ritorno al maschio originario)

Secondo lo psicanalista Claudio Risè, l’attuale debolezza maschile non deriverebbe tanto dalla perdita del potere patriarcale, quanto da una cultura che ha umiliato il maschio, considerato “brutto e volgare”, cultura, tra l’altro, condivisa dagli uomini, che avrebbero interiorizzato questo processo di perdita di considerazione. Secondo l’autore, la perdita della considerazione dell’uomo sarebbe connessa alla generale caduta simbolica del fallo, che sosteneva la potenza generativa maschile, e quindi il potere patriarcale. La svalutazione del fallo, diventato oggi sinonimo di qualcosa di violento, prepotente e ottuso, costringerebbe gli uomini a subire una devirilizzazione, una sorta di castrazione psicologica e sociale, alla quale si dovrebbe reagire, rilanciando il significato originario e più autentico del potere fallico, quello cioè legato alla generosità del dare, insita nell’elargizione del liquido seminale nell’atto sessuale e nella dedizione al benessere dei cari propria del pater familias. Oltre che per il recupero simbolico del fallo, la rivalutazione del maschile dovrebbe passare anche attraverso il ritrovamento, fisico e psicologico, della Wilderness, la selvatichezza della natura incontaminata. Si tratta di una forza vitale, originaria e arcaica, non intellettuale, che corrisponderebbe alla natura primordiale dell’uomo e sarebbe capace di trasmettere una ricchezza emozionale, istintuale e ideativa, del tutto contrapposta a quella addomesticata che si vive nei recinti dell’azienda, della famiglia e delle convenzioni sociali.

(la paura di assomigliare alla donna)

Ogni uomo vive l’erezione da un lato come un evento primordiale, carico di potenza e di mistero e degno di venerazione, dall’altro come un meccanismo al di fuori del proprio controllo, di cui non si è mai completamente certi e che quindi suscita paura e insicurezze.

Scrive Arno Gruen: “Tutta l’infelicità insita nella pulsione maschile a dominare la donna si evidenzia nelle fantasie che gli uomini hanno durante l’atto sessuale. Si tratta spesso di fantasie del tutto impersonali e aggressive, che riducono la donna a un oggetto passivo…Disprezzando le donne, gli uomini possono sfuggire alla vera intimità di cui hanno paura perché dubitano della propria adeguatezza; in verità non credono che qualcuno possa accettarli senza riserve. Mi pare che il motivo per cui noi uomini abbiamo bisogno di fantasie sessuali aggressive sia poter compensare i nostri sentimenti di inadeguatezza”.

Sembra che la segreta paura di assomigliare alla donna, che molti riconoscono come elemento intrinseco all’identità maschile, sia stata progressivamente affiancata da un’invidia del potere femminile, ritenuta una “spia” della crisi della virilità.

L’invidia della sessualità femminile, che comprende la capacità seduttiva, la possibilità di mantere un’eccitazione prolungata e di provare più orgasmi

L’invidia è un sentimento doloroso, del quale è difficile liberarsi attraverso riflessioni di tipo razionale. È un meccanismo di difesa, un tentativo di recuperare la fiducia e la stima di se stessi attraverso la svalutazione di chi ha più successo e più opportunità…

L’invidioso spesso non si limita alla svalutazione mentale, ma elabora atteggiamenti di tipo aggressivo e distruttivo, cercando di danneggiare e di ostacolare la persona invidiata, colpevole, ai suoi occhi, di essere apprezzata più del dovuto.

…L’invidia maschile nei confronti delle donne viene riconosciuta dalla psicanalisi soltanto quando sostiene che l’uomo s difende da un rapporto troppo coinvolgente con l’altro sesso, per esempio cercando sempre nuove relazioni, perché teme l’onnipotenza femminile-materna, e la situazione di dipendenza che ne consegue.

Le nuove ferite degli uomini, Vera Slepoj, 2010

Paura delle donne

“(Su Clitemnestra ndr) Il dramma classico, forgiato nell’ambiente ateniese del V secolo, si prospetta come eredità dell’epica e della poesia arcaica misogina (Esiodo e Simonide), con il compito di esorcizzare, tramite vicende spesso cruente e feroci, le paure che da sempre attanagliano l’uomo, in questo caso specifico il timore suscitato dalla donna, in particolare dalla moglie apparentemente devota, repressa e segregata, che si immagina pronta ad esplodere e ribellarsi, rappresenta la prima generalizzazione della letteratura occidentale contro le donne, avendo macchiato con i suoi crimini tutte le spose.
Naturale l’associazione oppositiva con Penelope, simbolo della fedeltà coniugale: infatti, l’una intesse una rete fatale di morte e inganno, l’altra invece fila una tela a garanzia della propria virtù.
In quanto donna, è portatrice di una differenza e di un’inferiorità naturale e sessuale, come sostengono le teorie di Platone e soprattutto di Aristotele, statuale e politica, in quanto regina e xenia, vale a dire straniera greca, spartana, priva della cittadinanza ateniese.

“Nella rete di Clitemnestra”,
dal blog Aliceinwriting

I

Le donne sono una razza nemica….Mascherate da «sesso debole» sono quello forte….
L’uomo è diretto, la donna trasversale. L’uomo è lineare, la donna serpentina. Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco. Lei è insondabile, sfuggente, imprevedibile. Al suo confronto il maschio è un bambino elementare che, a parità di condizioni, lei si fa su come vuole. E se, nonostante tutto, si trova in difficoltà, allora ci sono le lacrime, eterno e impareggiabile strumento di seduzione, d’inganno e di ricatto femminile.

La donna è baccante, orgiastica, dionisiaca, caotica, per lei nessuna regola, nessun principio può valere più di un istinto vitale. E quindi totalmente inaffidabile. Per questo, per secoli o millenni, l’uomo ha cercato di irreggimentarla, di circoscriverla, di limitarla, perché nessuna società regolata può basarsi sul caso femminile.

Sul sesso hanno fondato il loro potere mettendoci dalla parte della domanda, anche se la cosa, a ben vedere, interessa e piace molto più a lei che a lui. Il suo godimento — quando le cose funzionano — è totale, il nostro solo settoriale, al limite mentale («Hanno sempre da guadagnarci con quella loro bocca pelosa» scrive Sartre).

Ma adesso che si sono finalmente «liberate» sono diventate davvero insopportabili. Sono micragnose, burocratiche, causidiche su ogni loro preteso diritto. Han perso, per qualche carrieruccia da segretaria, ogni femminilità, ogni dolcezza, ogni istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia, e spesso anche dei figli quando si degnano ancora di farli.

II

Considero la donna, meglio: la femmina, molto più vitale del maschio. È lei, che procrea, la protagonista del gran gioco della vita (quello reale, non quello virtuale) mentre il maschio è un fuoco malinconico e transeunte animato da un oscuro istinto di morte. La donna è la vita, l’uomo è la legge, la regola, il rigore, la morte (il contrasto tra Antigone e Creonte in Sofocle). Non a caso nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone, quando l’Essere primigenio, dopo la caduta, si scinde in due la Donna viene definita “la Vita” o “la Vivente” mentre l’Uomo è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”.

È per riempire questo vuoto, per sopperire a questa impotenza procreativa (“l’invidia del pene” è una sciocchezza freudiana), che l’uomo si è inventato di tutto, la letteratura, la filosofia, la scienza, il diritto, il gioco regolato e il gioco di tutti i giochi, la guerra, che però oggi ha perso quasi tutto il suo fascino perché affidata alle macchine e anche perché in campo han voluto entrare pure le stronzette che pretendono di fare i soldati e vogliono fare, con i loro foularini, le corrispondenti di guerra (Ma state a casa, cretine, a fare figli. L’interesse della donna per la guerra è una perversione degli istinti. La donna, che dà la vita, non ha mai amato questo gioco di morte, tipicamente maschile. Ma ormai così è: le più assatanate guerrafondaie di questi ultimi anni sono state la Albright, Emma Bonino e quella pseudodonna e pseudonera di Condoleezza Rice).

Comunque sia è vero che da quando si sono “liberate” si sono appiattite sul maschile,diventandone una parodia, e insieme alla femminilità hanno perso anche il loro fiore più falso e più bello, il pudore, per il quale valeva la pena, appunto, di corteggiarle. Han perso la sapienza delle loro nonne alle quali bastava far intravedere la caviglia. Rivestitevi, sciocchine. All’uomo non interessa la vostra nudità, ma scartocciare, lentamente, la colorata e inquietante caramella anche se, alla fine, c’è sempre la solita, deludente, cosa.

III

Conosco molte trentenni, spesso belle, colte, eleganti (fini no, la ragazza “fine” è scomparsa dall’Occidente) che fan una fatica boia a trovare un partner. Non per una scopata (anche per quella, gli uomini, di fronte all’aggressività femminile, stan diventando tutti finocchi), ma un uomo che dia loro la sicurezza e il senso di protezione di cui hanno bisogno. Consiglio uno stage in Afghanistan. Troveranno degli uomini che le faranno rigar dritto, come meritano e come, nel fondo del cuore, desiderano.

Massimo Fini
(Leggi quiquiqui qui)

L’uomo, che per quanto si vanti e si glori ha sempre avuto paura della donna per quella fenditura da cui nasce la vita e il mistero, è oggi ulteriormente intimorito dall’aggressività di lei. Che non ti appoggia più teneramente la testa sulla spalla e tantomeno ti fa un maglione. Da che mondo è mondo la donna non seduce ma si fa sedurre. Insomma è stata sempre lei a condurre il gioco, ma in modo più malizioso e meno sfacciato. Una donna che si offre spudoratamente fa cadere ogni libido. (..)

Ancora Massimo Fini Sul Fatto Quotidiano

L’uomo, sempre più innamorato di sé, sempre più narciso, si è eccessivamente femminilizzato. Tien cura del proprio corpo come una donna, si depila, si deodora, si cosparge di creme, frequenta, al pari di lei, le beauty farm. Inoltre non ci sono più le occasioni per dimostrare la propria virilità e il proprio coraggio (la donna non ha bisogno di dimostrare coraggio, ce l’ha quando occorre, essendo antropologicamente preparata al parto), non fa più la guerra, non esiste più un orgoglio nazionale, la forza fisica, sostituita dalla tecnica, ha perso ogni importanza, serve al più per svitare i tappi delle bottiglie di acqua minerale o per mettere le valigie sulle reticelle dei treni. Ha perso vitalità. Un uomo-femmina interessa molto poco le donne dal punto di vista sessuale. Tanto vale, per dirla brutalmente con Céline, che “se la divorino tra di loro”.

Le donne sono state finora trattate dagli uomini come uccelli che, dopo aver spiccato il volo da una certa altezza, si sono smarriti abbassandosi fino a loro: come qualcosa di più fine, di più vulnerabile, di più selvaggio, di più singolare, di più dolce, di più spirituale – ma anche come qualcosa che si deve imprigionare affinchè non se ne rivoli via.

Ciò che nella donna incute rispetto e piuttosto spesso timore è la sua natura, che è “più naturale” di quella dell’uomo, la sua genuina rapace astuta duttilità, i suoi artigli di tigre sotto il guanto, la sua ingenuità nell’egoismo, la sua ineducabilità e intima selvatichezza, l’inafferrabilità, vastità, vaghezza dei suoi desideri e delle sue virtù…Ciò che, nonostante ogni paura, ispira pietà per questa bella e pericolosa gatta “donna”, è che essa è più sofferente, più vulnerabile, più bisognosa d’amore ed appare più condannata alla delusione di qualunque altro animale. Paura e pietà: con questi sentimenti l’uomo è stato finora di fronte alla donna, sempre con un piede già nella tragedia che lacera estasiando.

Al di là del bene e del male, Friedrich Nietzsche, 1885

L’invenzione della cultura eterosessuale, Louis Georges Tin

Cos’è l’eterosessualità se non una forma culturale dominante? E, se è culturae non è natura, perché non studiarla dal punto di vista storico? Questa l’idea di fondo de “L’invenzione della cultura eterosessuale”, pubblicato in Italia da :duepunti edizioni. L’autore, Louis-Georges Tin, sociologo della letteratura, già promotore della Giornata internazionale per la lotta contro l’Omofobia, compie una movenza tipica delle scienze sociali. Individuando un elemento come culturale, ne ricostruisce il percorso storico. Per uno studioso, si potrebbe dire, questa è ordinaria amministrazione. E invece no. L’idea di Tin è rivoluzionaria. Questo libro è il primo che studia l’eterosessualità problematizzandola e storicizzandola. È un’opera prima, uno studio pioneristico.

Macroscopici meccanismi storici e culturali che influenzano – se non determinano – la nostra sfera più intima, i comportamenti che ci sembrano più istintivi, più naturali. Trascendendo individui, liberi arbitri e scelte personali. Contro ogni apparenza. Già, oggi l’eterosessualità è vista come uno stato di natura. Un uomo ama una donna perchè questo è l’unico modo per garantire il perpetuarsi della specie umana. Motivi biologici, quindi. La riproduzione è la garanzia della “naturalità” di certi comportamenti sociali. Ma, avverte Tin: “Se la riproduzione eterosessuata è la base biologica delle società umane, la cultura eterosessuale non è altro che una delle costruzioni possibili, e in questo senso non può essere considerata come modello unico e universale”. Ecco, una delle costruzioni possibili. Infatti, anche nella stessa civiltà occidentale, il modello eterosessuale non è stato sempre quello dominante. Tutt’altro.

L’invenzione dell’eterosessualità

Ci si concentra così sull’epoca medievale, intorno al XII secolo, quando si registra un faticoso “cambio di paradigma” tra due costruzioni culturali alternative. All’amore cavalleresco subentra l’amor cortese.

Medioevo. Epoca feudale. L’amore verso le donne, l’innamoramento come lo intendiamo noi, non esiste. Anzi, è considerato un pericolo per la virilità degli uomini, dei cavalieri. Non che non ci siano rapporti sessuali tra uomini e donne, non che non ci si riproduca, ma l’eccessivo “trasporto” verso l’altro sesso è considerato negativamente. Il rapporto sociale amoroso per eccellenza è quello tra uomini. Tin la chiama omosocialità maschile. Qualcosa che va oltre l’amicizia, il cameratismo. Qualcosa di molto diverso, inoltre, dall’omosessualità come la intendiamo oggi. Lo studioso riporta numerosi esempi presi dalla letteratura cavalleresca. Uomini che mostrano nei confronti di altri uomini tutti i segni dell’innamoramento “moderno”. “Questi amori maschili– scrive lo studioso – sono legati al carattere globale in senso proprio, ovvero organico, della società medievale…Nella società medievale, che è globale, organica o olistica, l’amicizia è spesso una relazione privata e pubblica allo stesso tempo che gode di un riconoscimento sociale, culturale o addirittura ufficiale…il culto dell’amicizia è un regolatore sociale che permette di rinsaldare il legame tra soldati, e suscitare uno spirito di corpo creando una sorta di cemento sociale”.

A questo paradigma “feudale” subentra l’amor cortese, ovvero l’esaltazione della calamita amorosa uomo-donna. La sottomissione simbolica dell’uomo a una domina, a una signora. Lo studioso, per tutto il libro, illustra tutte le resistenze contro cui la nuova idea ha dovuto lottare. Resistenze degli uomini d’armi e resistenze degli uomini di chiesa. Per il mondo cavalleresco l’amor cortese è soprattutto una minaccia alla virilità degli uomini. Rischia di renderli effeminati. Per la chiesa l’amor cortese è un pericolo perchè troppo carnale, troppo sensuale, troppo poco spirituale. Ma la Chiesa, rispetto alla nobiltà, si dimostra più avveduta. E non è un caso che la nobiltà soccombe e la Chiesa sopravvive. Dopo il primo periodo di opposizione dura, agli inizi del XIII secolo, il clero ripiega per una serie di compromessi. Istituzionalizza il matrimonio, riconosciuto come sacramento durante il Concilio Laterano IV del 1215, e promuove la diffusione del culto della Vergine Maria, paradossale e astutissima sintesi tra l’amor cortese e l’amor divino.

Ma le resistenze alla forma culturale dell’amor cortese non finiscono certo nel XIII secolo. È in ambito medico in cui si riscontrano le principali opposizioni. Documenti alla mano, lo studioso dimostra come – per la medicina – l’innamoramento è stato per lungo tempo una malattia. Prima chiamata mal d’amore, poi diventata erotomania. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, nacque poi la definizione di eterosessualità. Che secondo i dizionari dell’epoca era nientemeno che un “appetito sessuale anormale o pervertito per l’altro sesso”. Piano piano però la conversione culturale si affermò, finchè l’eterosessualità venne accettata stabilmente non più come devianza patologica ma come norma sociale. Dunque, come scrive Tin,  “la malattia era diventata la norma”.

Una volta fissata la norma c’è bisogno della caccia all’anormale, individuato facilmente nell’omosessuale. Studiata per tutto il novecento, dopo innumerevoli e vane ricerche per trovare i rimedi per “curarla”, l’omosessualità è stata esclusa dall’elenco delle malattie soltanto il 17 maggio del 1990, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità si pronunciò a proposito.

Sguardo avanti. Cosa c’è oltre l’eterosessualità?

E adesso? La ricostruzione storica getta una luce nuova sul presente. “L’istruzione pubblica, ma anche le associazioni educative popolari, le associazioni sportive, le colonie estive, i manuali ad uso dei genitori, le riviste femminili, le riviste di psicologia rivolte al grande pubblico e quelle di divulgazione scientifica o pedagogica, la letteratura per ragazzi ecc: tutti questi mezzi furono (e sono tuttora) vettori di diffusione della cultura eterosessuale”.

Una cultura dominante che diventa eterosessismo e  produce effetti negativi sia per gli omosessuali – è chiaro – ma anche per gli eterosessuali.“I giovani eterosessuali che a 17 anni  non hanno ancora “la ragazza”, le giovani che a 25 anni non hanno ancora trovato marito, le donne divorziate o vedove, sono tutte  figure che soffrono allo stesso modo per il fatto di non essere conformi alla norma eterosessuale. Per non dire di quegli eterosessuali che vivono in coppia e accettano di continuare a farlo a dispetto dei loro desideri profondi, conformando, addirittura sacrificando la loro volontà personale alla volontà collettiva, cioè alla norma”.

E il futuro? Louis-Georges Tin arriva infine a prospettare un ipotetico ulteriore “cambio di paradigma”, grazie alle mutazioni che potrebbe subireil legame tra sessualità e riproduzione. Le nuove scoperte della scienza, infatti, rendono sempre più possibile il sesso senza riproduzione e la riproduzione senza sesso. Parliamo ovviamente di anticoncezionali, di aborto, di inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, bambini-provetta e – chissà in futuro – gravidanze extra-uterine e clonazione riproduttiva. “Ne conseguirebbe allora il trionfo dell’autonomia della coppia eterosessule? – si chiede lo studioso – O, al contrario, la cultura eterosessuale perderebbe la sua legittimità storica? Sarebbe allora condannata a scomparire? Certo che no. Ma non avrebbe più la forza dell’evidenza che poteva avere un tempo. Le coppie eterosessuali continuerebbero certamente a esistere, ma non al fine della riproduzione. Perchè per questo vi sarebbero tecniche specifiche. Queste coppie si incontrerebbero e si formeranno come le coppie omosessuali: per il puro piacere”.

“Lo splendore e la miseria dei pioneri”

“L’invenzione della cultura eterosessuale” è un libro importante e soprattutto onesto. L’intento politico è palese. Desacralizzare la cultura eterosessuale, raccontandola appunto come cultura, storicizzandola e relativizzandola. Ma non c’è nessun livore “di parte”, nessuna esagerazione ipocrita, nessun ottuso slogan. Anzi, la scrittura di Louis-Georges Tin spicca per linearità e serenità intellettuale. Il suo discorso è portato avanti all’insegna del rigore metodologico più controllato. Certo, non mancano le pecche. Alcuni passaggi non sono ben esplicati e il discorso è un po’ troppo incentrato sulla Francia e sulla letteratura. È lo stesso studioso ad ammetterlo, parlando di questo libro come di una “bozza”, un primo capitolo di un lavoro molto più ampio. Qualcosa che comprende in sé “lo splendore e la miseria dei pioneri”.

(Già pubblicato su Pupi di Zuccaro)