Sacro, ragione e tecnica secondo Galimberti

[…] La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi: alcuni di essi arrivano persino a prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale è venuta a delineandosi sotto l’influsso di determinate religioni e di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si deve partire. Non vogliono imparare che l’uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta. […] Ora, tutto l’essenziale del progredire umano è avvenuto in tempi remoti, molto precedenti a quei quattromila anni che noi approsimativamente conosciamo e nei quali l’uomo non può essersi cambiato di molto. Ma il filosofo vede nell’uomo attuale “istinti”, e presume che questi facciano parte dei fatti immutabili dell’uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l’intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell’uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. […]

Friedrich Wilheim Nietzsche, Umano, troppo umano,
libro primo, parte prima, af. 2,
Newton Compton, 2010, pp. 33


[Il sacro è ndr] questa dimensione spaventosa, da cui gli uomini si sono sempre guardati […] questa parola sacro che vuol dire separato […] questa parola con cui gli uomini hanno designato delle potenze che sentivano superiori a loro e incapaci di dominarli, e le avevano collocate in un’altra dimensione che hanno denominata divina.
Dio nel sacro è arrivato con molto ritardo, il sacro è qualcosa di molto più potente di Dio.

Nei confronti del sacro noi abbiamo un rapporto di ambivalenza, da un lato lo teniamo lontano, e dall’altro ne siamo attratti come si può essere attratti come dall’origine da cui un giorno siamo provenuti.

A tutela del sacro gli uomini hanno in un primo tempo ideato le religioni.
La religione ha il compito di relegare il sacro, lo dice la parola religione-relegare, contenerlo perché terribile e pericoloso e perciò ha stabilito degli spazi in cui relegare il sacro: le chiese, le sinagoghe, le moschee.

A separare dallo spazio invece non sacro che i latini chiamavano profano, pro: lo spazio antistante il luogo sacro, dove si svolge la vita degli uomini, questo spazio è consegnato alla comunità degli uomini nelle loro faccende quotidiane.

Ancora le religioni hanno distinto il tempo sacro che è la festa e un tempo feriale che è il tempo delle attività umane. E poi hanno istituito i sacerdoti che sono i competenti del sacro, quelli che stanno con un piede nel sacro e uno fuori dal sacro per consentire da un lato l’esorcismo del sacro e con l’altro la mediazione con il sacro; del sacro ne abbiamo anche bisogno, e i sacerdoti sono questi grandi mediatori.

Il sacro è indifferenziato e per capire cosa vuol dire indifferenziato, dobbiamo capire che cosa sono le differenze, che cosa è l’identità, in una parola che cosa è la ragione.

L’umanità si è emancipata, è uscita fuori dalla dimensione indifferenziata del sacro attraverso le procedure della ragione, e queste procedure della ragione sono innanzitutto il principio di non contraddizione e il principio di identità, grazie ai quali gli uomini possono parlare confrontarsi fra di loro riducendo l’angoscia.

[…] L’umanità infatti non si è mai raccolta intorno al focolare come è caro alla metafora del liberalisti, l’umanità si è raccolta attorno al grido e un grido d’angoscia di fronte al potente che non è riuscito a controllare. Questi potenti sono le dimensioni indifferenziate, incontrollabili della sacralità.

Ci sono due frammenti di Eraclito che ci danno bene lo schema, dice Eraclito: Dio è giorno e notte, sazietà e fame, guerra e pace e si mescola tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma.
Ecco qui gli indifferenziati, Dio è la mescolanza di tutti gli elementi, Dio non è in grado di articolare un discorso di identità.
Gli dei greci subivano tutte le metamorfosi, Giove diventava vitello, mucca, fulmine, uomo, perché Dio non riesce a darne l’identità, perché tutte le cose anche il concetto cristiano di Dio di onnipotenza non è altro che la forma filosofica e sterilizzata della metamorfosi continua del Dio.
Ancora dice Eraclito: L’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra; per Dio tutto è bello, tutto è buono, tutto è giusto.
Quindi l’uomo è colui che stabilisce le differenze, che distingue il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, stabilendo le differenze stabilisce le identità fuoriesce dalla dimensione sacrale dove invece tutto si confonde, si fonde insieme e si mescola, Migma dicevano i greci, mescolanza assoluta e all’interno della mescolanza assoluta gli uomini non possono vivere.

Con il principio di non contraddizione e con il principio di identità, che sono i due cardini con cui l’umanità e avvenuta alla ragione e se diciamo: questa è una bottiglia e la prendo in mano, nessuno di voi teme alcun che, non temete perché ipotizzate che io utilizzi la bottiglia per bere, io verità io la bottiglia la potrei usare come un’arma impropria, perché le cose sono tutte ambivalenti, le cose appartengono tutte al sacro e lo sforzo della ragione è quello di contenere la loro identità in modo tale che quando io prendo in mano questo oggetto che è la bottiglia, non ci sia allarme nei vostri comportamenti. Quando dico: portami una bottiglia uno sa che cosa sta facendo e mi porta una bottiglia e non un’altra cosa.

Ragionare significa determinare, definire, porre fine al significato delle cose che sono tutte ambivalenti.
(Lo sanno benissimo le mamme quando vedono i bambini con il principio di non contraddizione, il bambino se vede un pennarello lo usa per disegnare, per succhiare e poi lo usa per metterlo nell’occhio a suo fratello. La mamma dice no. Il pennarello è disponibile a tutte queste funzioni, è ambivalente, porta con se una pluralità di significati, dicendo no, la mamma insegna al bambino che il pennarello non si usa come arma nei confronti del fratello, non si usa come il biberon, si usa per disegnare. In questo no, si perviene alla definizione della cosa e a quello che attorno ai sette anni si chiama uso della ragione)

Ragionare allora è uscire dall’indifferenziato, uscire da quella dimensione dl Dio che giorno e notte, inverno estate, sazietà e fame. Ragionare significa ritener giusto una cosa e ingiusta un’altra, gli uomini ragionano e ragionando si sono emancipati dal sacro.

Emancipati però non in maniera definitiva e soprattutto emancipati da quello che Kant definisce l’oceano dell’irrazionale. Kant dice: La ragione è un’isola nell’oceano dell’irrazionale, per cui il nostro ragionare è una faccenda provvisoria, è una faccenda che dobbiamo ricostituire ogni giorno, è una faccenda precaria.

Nella ragione ci siamo, ma possiamo anche cedere e questo collasso, questo cedimento lo conosciamo istruiti dalla psichiatria e dalla psicanalisi e lo chiamiamo follia.

La follia ci abita, non è qualcosa che abbiamo congedato una volta per sempre, la follia è il sottosuolo della nostra anima in ragione di quell’isola piccolissima di cui parlava Kant nell’oceano dell’irrazionale.

Nel sacro si muovono i bambini, perché i bambini vanno custoditi, perché trattano le cose per come sono per la loro infinita disponibilità, allora le mamme li custodiscono gli vietano i pericoli, gli assegnano il significato delle cose in modo che il loro uso sia corretto, non inquietante, gli insegnano le parole e gli insegnano che le parole hanno un significato ben definito, cioè finito e gli elimina tutte le oscillazioni del significato, perché noi nasciamo nel sacro e dobbiamo fuoriuscire. Per questo la ragione la si guadagna dopo un po’ di anni.

Nel sacro si muovono i poeti, i poeti fanno oscillare tutte le parole, quando Leopardi dice Dimmi che fai tu luna in ciel… se dovessimo guardare questa espressione dal punto di vista della ragione, non avrebbe nessun significato; assume significato solo se alla parola luna dò un secondo significato, ed ecco qui l’oscillazione di senso. Assumo per esempio la luna come interlocutrice femminile, e allora questa luna femmina diventa suscettibile di essere interrogata: Dimmi che fai tu luna in ciel.., ma se non faccio questa oscillazione di significato, se non derogo dalla definizione di luna, la parola, dal punto di vista della ragione, sarebbe insignificante.

Nel sacro noi affondiamo ogni notte, la notte è la sospensione della ragione, i nostri sogni non sono solo delle belle cose, i nostri sogni sono uno sconvolgimento totale dell’anima, nel sogno si abolisce il tempo, posso sognare passando in un minuto dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Il sogno non tiene l’identità, nel sogno io sono vecchio e giovane, sono maschio e femmina, sono io ma non sono io, nel sogno non regge il principio di non contraddizione e il principio di identità, non regge il principio di causalità per cui l’effetto genera la causa, non funziona il tempo e la sua scansione, non funziona lo spazio per cui sono qui, ma sono anche a Washington.

Queste dimensioni ci dicono che la ragione collassa e il collasso non è il buio della notte, ma è l’insorgenza del pre-razionale, questa dimensione, e dimensione spaventosa, è la dimensione del sacro.

Il sacro è un luogo di massima violenza, un luogo di sessualità sfrenata, è un luogo che non conosce i limiti, è il luogo dove la mistico-sessualità è violenza perché queste sono le due grandi matrici delle leggi di natura, di come la natura proceda attraverso l’esercizio della sessualità e proceda attraverso l’esercizio della aggressività per la difesa della prole. La natura che c’è in noi, è il luogo eminente dell’irrazionale che è dimensione sacrale.

Le prime religioni sacralizzavano gli enti naturali, il sole, la luna, le stelle. Da tutto ciò l’uomo si è emancipato con l’uso della ragione che ha inventato. Anche la ragione è violenza, è violenza perché il dire che questa è una bottiglia e non è un’arma impropria è una decisione, non è una verità; questa bottiglia è anche un’arma impropria, per cui noi nuotiamo nell’irrazionale e nel sacro.

Attraverso la rete della ragione (ed è impresa ardua) cerchiamo di tenere le definizioni e attraverso la definizioni cerchiamo di tranquillizzare i comportamenti, per cui se prendo in mano questa bottiglia nessuno si spaventa, e si considera che io non sia pazzo.
Attraverso le definizioni noi possiamo intenderci e comunicare in maniera univoca, per cui la ragione è stata la grande macchina che ci ha fatto uscire dal sacro, e la disciplina che ha ideato la ragione si chiama filosofia.

La filosofia non è altro che quel grande accadimento attraverso cui si è ideata la ragione, si è usciti dai miti. C’è un passaggio vicino all’Illisso, un fiume che scorre nei pressi di Atene, dove Fedro chiede a Socrate: Dimmi che cosa ne facciamo ora degli Dei i quali subiscono metamorfosi, si concedono le sessualità più disparate e perverse, le violenze più inimmaginabili? Socrate risponde: Ora che siamo arrivati alla ragione, degli Dei non ci occupiamo più, ne del resto… basta, siamo usciti dalla dimensione sacrale, per quel tanto che siamo usciti.

In occidente la civiltà ha due matrici, la greca e l’ebraica, e questi scenari della grecità in cui si opera, e la fuoriuscita da quella dimensioni sono esempi molto pratici, significativi, molto belli da esaminare brevemente a incominciare da quell’unica colpa che i Greci riconoscevano agli uomini.
I Greci non avevano un catalogo morale, perché erano persone serie; i Greci avevano una sola colpa che imputavano agli uomini e questa colpa si chiama tracotanza, il tentativo di oltrepassare la misura umana, il tentativo di competere con gli dei, e ciò è molto rischioso.
Quando l’uomo desidera l’immortalità, compete con gli dei; e quando si compete con gli dei, non si può che perdere, perché la loro potenza è enormemente superiore a quella degli uomini. Non devi competere con gli dei, gli dei sono solo la misura di quello che tu uomo non sei, perché tu uomo sei mortale.
I Greci avevano due modi per dire uomo, usavano solo la parola brotos al tempo di Omero, e la parola demetros al tempo di Platone che significa mortale: ricordati uomo che sei mortale, questa è la tua misura e se non stai nella tua misura, se affondi nello smisurato e se oltrepassi la condizione che ti è stata assegnata, sei perso.
Questa era l’unica colpa che i Greci riconoscevano agli uomini, l’oltrepassamento della misura umana, perché sapevano bene da che sfondo l’umanità era stata tratta fuori: attraverso l’ideazione dei processi della ragione.

Abbiamo un passo dell’Iliade in cui Agamennone sottrae ad Achille la sua schiava e Achille offeso non va più in guerra, e quando Achille non va in guerra i greci perdono le battaglie. Ulisse come al solito tenta di far da mediatore, organizza dei giochi in modo tale che il vincitore abbia la possibilità di scegliere come debbano essere composte le liti. Alla fine Agamennone, persuaso della violenza che ha usato nei confronti di Achille, restituisce la schiava con questa frase: io non ho colpa Achille di averti sottratto la schiava, tu conosci la violenze con cui tutti gli dei confondono la mente degli uomini. Non è una scusa per salvare la propria dignità, perché Achille gli risponde: conosco le violenze terribili che gli dei impongono alla mente degli uomini e dovremo trovare il modo per cui gli uomini riescano a fare a meno e a chiudere la mente quando gli dei la vogliono sconvolgere, quindi dio è visto come lo sconvolgente.

I sacrifici agli dei non si fanno per implorare gli dei; i sacrifici agli dei si fanno per tenerli lontano, perché l’ingresso del dio nella città sconvolge la città.

Ce ne dà una interpretazione Euripide, quando spiega che Dioniso entra nella città, corre al palazzo reale e il sovrano dimentica di essere re, e gira come un poveraccio mendicante nella città: le donne diventano menadi, i vecchi si comportano come i bambini, c’è il collasso dell’ordine, e quando si chiede se non si può allontanare il Dio, si risponde no, nessun uomo può allontanate il dio, dobbiamo solo attendere che il dio se ne vada. Quando Dioniso avrà lasciato la città allora ritornerà l’ordine.

Pensate che ancora nell’ottocento, quando si facevano le prognosi psichiatriche, si concludevano questi referti con la dicitura D.C., Dio Concedente, se Dio concede. Se il Dio concede di abbandonare la mente, allora anche la sua mente rinsavirà.
Nessuno può cacciare il Dio, solo il Dio può congedarsi e quando il Dio si congeda la comunità degli uomini può cominciare a operare secondo ragione.

Sempre nel mondo greco abbiamo la figura del capro espiatorio, quando c’era un massimo disordine nella città si assumeva un capro e lo si investiva in tutte le sue dimensioni sacrali, lo si insultava, lo si offendeva e alla fine lo si sacrificava e in questa maniera il capro espiatorio raccoglieva in se tutta la violenza che c’era nella città che era indotta dagli dei, ma che gli uomini hanno sempre rifiutato di essere depositari della violenza, perché non volevano attribuirsi il principio della distruttibilità umana. Per salvaguardarsi da questo terrore gli attribuivano una potenza superiore in maniera tale da non guardare in faccia la possibilità dell’autodistruzione. Capro espiatori, farmaco, la malattia è una dimensione sacrale, perché è la disorganizzazione di tutti gli organi, è il disordine di tutte le nostre composizioni somatiche, è il magma del nostro corpo è il collasso dell’ordine, e allora ci vuole il farmaco che appare in tutte le cose sacre e dimensione ambivalente, perché il sacro con la sua ambivalenza fatica anche il farmaco sia ad un tempo rimedio o veleno, ma le due cose vanno sempre associate, perché il sacro non conosce le differenze.

Nella cultura ebraica le cose non vanno molto diversamente, il sacro è aldilà di ogni legge, perché la legge è già una faccenda umana, è già un prodotto della ragione, è già un dispositivo d’ordine.
Voi ricorderete quando Abramo riceve da Dio l’ordine di sacrificare suo figlio, il sacro da ordini che sono aldilà dei comandamenti. Kierkegaard queste cose le aveva capite molto bene, il religioso oltrepassa l’etico, l’uomo di religione non si deve impigliare in nature etiche e in problemi etici, perché la religione è aldilà dell’etica, Dio ti dà i comandamenti non uccidere, ma ti dà anche il comandamento “sacrifica tuo figlio”. Naturalmente le cose finiscono bene perché arriva un angelo a fermare la mano di Abramo, ma anche qui vedete la violenza del sacro, l’oltrepassamento delle regole, il non contenimento di questa potenza.

Gli stessi dieci comandamenti che sono pure un principio di ordine, un principio di legge, vengono dati da Dio e raccolti da Mosè sul monte Sinai secondo quella modalità, per cui Dio appare a Mosè senza che Mosè lo possa vedere dicendogli di nascondersi dietro il cespuglio, perché nessuno può reggere il mio sguardo, con Dio non c’è un faccia a faccia.
Solo quando me ne sarò andato tu mi potrai vedere da dietro guardando le mie orme, perché nessuno può tenere il volto di fronte a Dio, non c’è un faccia a faccia con Dio.
Un ebreo morto qualche anno fa ha scritto che non c’è un faccia a faccia con Dio perché la faccia di Dio non si può vedere perché la faccia di Dio è di tutti i volti. Si riprende l’antico motivo che il sacro non conosce differenze, non conosce l’identità, è la mescolanza totale di tutte le cose. Non nominare il nome di Dio invano non è un comandamento è una constatazione, noi diciamo Jahweh per comodità, in realtà il nome di Dio non si può nominare perché costruito con consonanti che aggruppate non sono enunciabili. Non è un comando non nominare il nome di Dio è una impossibilità, perché Dio non ha nome, perché se avesse nome avrebbe un volto, avrebbe una identità e ispirerebbe delle differenze.

Abramo, Mosè, lo stesso Giobbe per esempio che viene decantato per la sua pazienza ed è un uomo giusto che a un certo punto gli muore il bestiame, i figli si allontanano, la moglie lo lascia, arriva la lebbra, gli amici lo vanno a trovare e lo incolpano, se tutto questo ti è capitato vuol dire che qualcosa di ingiusto hai commesso. Quest’uomo sul letto, disperato, abbandonato, incolpato dagli amici, si rivolge a Dio e gli chiede perché essendoti stato fedele e uomo giusto tu mi hai dato tutte queste disgrazie. Di solito ci si ferma qui e si elogia la pazienza di Giobbe e la fiducia in Dio, ma andatevi a leggere fino in fondo questo passo, andatevi a leggere nell’ultima colonna la risposta di Dio, il quale gli dice: ma tu Giobbe dov’eri quando io ponevo la terra sui suoi cardini, dov’eri quando io riempivo il cielo di stelle, dov’eri quando riempivo le acque di animali acquatici e l’aria di animali volatili dov’eri tu? E mi vieni a dire che la moglie se ne andata, che hai la lebbra ecc, ma dov’eri tu? Ti metti a parlare con Dio come se fosse uno al pari di te. Recupera il senso che con Dio non c’è contrattazione, non c’è richiesta, non c’è preghiera. Dio è inaccessibile e qui abbiamo già un Dio abbastanza formato, abbiamo detto all’inizio che Dio nel sacro è arrivato con molto ritardo.

Oggi sostanzialmente il sacro non c’è più, perché è accaduto quell’evento importante, grandioso che ha deciso la cultura dell’occidente e che si chiama cristianesimo, che ha operato una sorta di desacralizzazione che non è determinata dal fatto che il cristianesimo strada facendo si è occupato di cose terrene e oggi si occupa di fecondazione assistita, contraccettivi, pillole, scuole pubbliche, scuole private, non è questa la desacralizzazione, qui ci sono i cascami della desacralizzazione, ma la desacralizzazione è avvenuta quando Dio si è fatto uomo. Il cristianesimo è l’unica religione che ha eliminato il sacro (separato), ma se Dio diventa uno di noi è riconoscibile. Quindi ha costituito una sorta di fuoriuscita dalla sacralità, ci sono ancora tratti sacrali, l’operazione del Golgota è una esplosione di sacralità, sangue, carneficina, dolore espressi in una modalità più drammatica che si potevano immaginare, ma ormai il sacro è emarginato.
Dio acquista un volto e per giunta il volto di un padre, perde la sua ambivalenza di cui parlavamo all’inizio, non è più giorno e notte, inverno estate, acquista il volto del Padre buono e allontana da se il male e il male diventa il diavolo che è la controparte di Dio il suo aspetto negativo, il male di Dio è il diavolo.

Attraverso questa separazione il diavolo viene addirittura iconograficamente rappresentato come quella divinità greca che è Pan dio dello stupro,
lo stupro ha qualcosa in se sia pure ad un livello elementare i due fattori della sacralità: sessualità perversa, orgia dionisiaca e violenza suprema, lo stupro è violento. Lo stupro è sessuale e Pan diventa il diavolo proprio perché raccoglie in se queste due dimensioni. Pan è anche dio della tragedia, nella tragedia si discute sostanzialmente e continuamente di questo tema, come ci si emancipa dal sacro, come si affronta la città, come si costituiscono le leggi, come si smette il regime delle vendette, come ci si può intendere, come si fa giustizia, come si organizzano tribunali, come può avere la sua rappresentanza la giustizia, questo è il grande risvolto della tragedia, il Dio dei pastori che hanno inventato i cori tragici e lo fanno diventare il diavolo, separando radicalmente il bene e il male.
Attraverso questa separazione non usciamo dall’ambivalenza sacrale, usciamo dalla confusione, di qui c’è il bene, di qui c’è il male. E il diavolo che è la parte negativa di Dio viene ad assumere l’iconografia, l’immagine di Pan il dio capro con le corna e gli zoccoli.

Se Dio si fa uomo è inevitabile che dopo qualche tempo l’uomo si faccia Dio e ottenga da se quello che un tempo era costretto a implorate dagli dei, noi siamo usciti dalla dimensione sacrale e grazie a questa fuoriuscita [siamo potuti ndr] arrivare a quel regime tecnico di oggi che è il regime più alto di razionalità mai raggiunto dagli uomini.

Quando voi sentite dire che vogliamo esportare la democrazia in Iraq o altrove, coloro che pronunciano questa proposizione non sanno nulla della storia dell’uomo, non sanno che le popolazioni che vivono ancora in un regime sacrale e che non sono ancora pervenuti ad un regime di assoluta razionalità, non possono neppure arrivare ad un regime di democrazia, cioè il riconoscimento delle differenze di strutture di giustizia, di riconoscimento di pari dignità degli uomini, non è possibile, ci sono passi antropologici da fare enormemente, che richiedono tempi lunghissimi e non certo una guerra di tre o quattro anni, le guerre sono dimensioni sacrali.

Noi siamo usciti dal sacro, viviamo in un contesto di razionalità suprema, spassionata, perché la tecnica è la cosa più alta della razionalità ed è anche la cosa più alta di assenza di passioni. Prima della tecnica la forma più razionale era l’economia, ma l’economia soffriva ancora di una passione umana, del desiderio del denaro che la tecnica non ha. E vivendo noi tutti in un regime tecnico di assoluta razionalità, di fredda razionalità, costituita da efficiente razionalità non abbiamo strumenti per reggere il sacro che ci abita, perché il sacro ci abita potentemente in quella formula che il linguaggio modesto di Freud chiama inconscio.
Un linguaggio più forte lo usa un amico di Freud, poco conosciuto di nome Bleuler, nato nello stesso anno e morto nello stesso anno, il quale la chiama schizofrenia.

La follia è la matrice della nostra costituzione, nasciamo folli, i bambini sono folli, se io mi metto immediatamente a passare dal pianto al riso alla mia età, qualcuno chiama la croce rossa. Se mi metto a urlare, a pestare i piedi, a buttare il cibo in faccia agli altri e faccio quello che fanno i bambini ho qualche problema. I bambini nascono dalla follia e dice bene Bleuler: nasce perché noi nasciamo con una infinità di personalità ancora indistinte, ancora magmatiche, ma abbiamo una popolazione dentro di noi. Noi siamo tutto, la nostra follia ospita una infinità di personalità che si chiamano il bambino che c’è in noi, il vecchio che c’è in noi, il maschio che c’è in noi, la femmina che c’è in noi, quante discussioni si fanno su gli omosessuali potrebbero essere eliminate se appena pensassimo che siamo nello stesso tempo maschio e femmina e poi ci struggiamo in una direzione per poter convivere secondo una certa regola.

Abbiamo tutte queste personalità dentro di noi di cui una diventa egemone e quando diventa egemone siamo soliti chiamarla io. Io è quel complesso psichico che ha un buon rapporto con la realtà e si è abituato a ragionare, che chiama la bottiglia bottiglia e soprattutto la usa per bere e non per scaraventarla al prossimo.

L’io – lo ricordava Kant – è un’isola piccolissima; Jung dice un cerchio minore; Bleuler dice qualcosa di instabile, addirittura aveva proposto ai filosofi dell’epoca di non chiamare più la coscienza essere, ma questo è un lavoro quotidiano che noi dobbiamo fare per recuperare coscienza.

Quando la mattina ci svegliamo abbiamo qualche difficoltà, non perché passiamo dal sonno alla sveglia, ma perché dobbiamo recuperare la nostra identità che si è smarrita durante la notte, perché abbiamo fatto un viaggio nella follia durante la notte. E se ci fate caso i momenti massimamente ritualizzati – perché il mito è un grande contenitore del sacro – lo abbiamo la mattina, la mattina andiamo in automatico con i nostri riti, poi durante il giorno diventiamo più disinvolti, più liberi, mentre la mattina siamo molto ritualizzati perché dobbiamo ricuperare la nostra identità, la memoria di noi, di quel che eravamo. Abbiamo la ripresa dei nostri comportamenti serali, se abbiamo detto qualcosa di troppo, basta bere un po’ che il sacro riemerge nella forma della follia, perché si indeboliscono le difese dell’io.

Se facciamo questa traduzione in chiave religiosa e in chiave psicologica vi rendete conto che la follia è il nostro habitat abituale. La ragione ci salvaguarda finché ce la fa. E nella follia c’è l’ambivalenza, per cui le madri hanno i figli, ma li odiano anche, è inutile farsi l’immagine delle madri tutte buone, perché i figli nascono e crescono a spese delle madri. Il figlio nasce sottraendo dalla madre la qualità del suo corpo, il suo tempo, il suo sonno, i suoi progetti, allora non è vero che si amano solamente i figli si odiano anche, e questa ambivalenza è sacralità. Gli psichiatri per comodità dicono che quando le madri ammazzano i figli sono depresse, non sono depresse, sono ambivalenti, perché così vuole la natura. Non c’è il bene da una parte e il male dall’altra, questa è una finzione cristiana, il bene e il male si contaminano, non c’è la luce senza l’ombra.

Senza l’ombra non si distingue neanche il paesaggio, pensate a un quadro senza ombre non si riesce a vedere che figure ci sono, questo avevano capito gli antichi che Dio è buono e cattivo, è tremendo e tragico e soprattutto con Dio non c’è comunicazione, tant’è che Platone aveva detto: siccome gli uomini non possono parlare con gli dei, il linguaggio degli uni è assolutamente incomprensibile agli altri.
Siccome gli uomini parlano secondo ragione e gli dei parlano secondo codici confusi, metamorfosi, enigmi, che non sono i problemi i problemi si risolvono gli enigmi no.

Allora è necessario per consentire agli uomini di accedere al sacro o di parlare con gli dei, di quel mediatore che Platone chiama amore, potentissimo che sta tra gli uomini e gli dei, la sua funzione è più quella di interpretare e tradurre, interpretare le parole degli dei e tradurre agli uomini, interpretare le parole degli uomini e riferirle agli dei. Amore, Platone sta dicendo con questo che noi abbiamo una conoscenza non solo razionale, abbiamo anche una conoscenza affettiva, emotiva. Amore è un organo di conoscenza, le madri conoscono i bisogni dei figli anche se i figli non parlano e la categoria è l’amore, due innamorati si capiscono al di la delle parole attraverso la competenza emotiva, affettiva, e amore fa da mediatore. Naturalmente amore è una dimensione di disturbo per la razionalità, quando uno si innamora dice che perde la testa, perché entra in una dimensione sacrale, e però finisce quella competenza quella conoscenza, quella capacità di capire che attraverso gli strumenti della ragione è doppiamente impossibile pervenire, si conosce per amore. I grandi fenomeni cognitivi sono erotici, gli studenti imparano a scuola se i professori amano, e questo lo dico anche ai professori cristiani, io non sono cristiano, ma però anche nel cristianesimo c’è questa affermazione chiara: non si entra nel sapere se non attraverso l’amore. Se uno non sa amare non deve fare il professore, come se uno è alto 1,50 non può fare il corazziere.

Dalla follia non possiamo prescindere, la follia è la condizione della creatività, perché la ragione non crea niente, mette in ordine un materiale magmatico che non proviene dalla ragione, la ragione è solo uno strumento di ordinamento, ma il contenuto da ordinare ce lo da la follia cioè il sacro.
E ora di aumentare il rapporto con quella popolazione multipla che ci abita, il bambino, il vecchio, la femmina, il maschi che c’è in noi, luogo di potere, luogo dissoluto, luogo del denaro, tutto questo abbiamo dentro in questo caos.
Le religioni queste cose le hanno sempre sapute, quando Gesù libera l’indemoniato chiede al demonio uscito da quel disgraziato che abitava: dimmi il tuo nome, e la risposta del demonio è ironica: come faccio a dirti il mio nome, tu sai che noi siamo una legione. Noi abbiamo una molteplicità di personalità dentro di noi, grazie alla quale noi attingiamo spunti, per cui l’uomo può essere anche dolce perché ha anche il femminile dentro di sé Una donna può anche essere decisa perché ha un maschile dentro di se, il vecchio può essere tenero perché ha un bambino dentro di se e un bambino può essere anche saggio perché ha un vecchio dentro di sé. Ho sentito un nipotino di quattro anni che diceva con la mamma un po’ triste in quel momento: tutto passa.

Gli islamici pregano cinque volte al giorno in ore diverse, un po’ anche come i monaci nelle ore canoniche e loro pregano finché i complessi psichici, personalità latenti e si mettono in comunicazione con Allah. Alle cinque del pomeriggio non sono quello che sono alle nove del mattino, ho un modo diverso e tutti i complessi si devono mettere in contatto con Allah, perché solo così sono un uomo giusto in contatto con Dio. Ecco, queste sono macchine potentissime, poi l’umanità attraverso i riti religiosi aveva le modalità di accedere al sacro perché del sacro ne abbiamo bisogno, e di tenerlo al tempo stesso lontano perché il sacro ci può subissare.

Oggi i riti religiosi sono spariti non ci sono più, se voi andate nelle chiese, sentite le cose che potete dire tranquillamente al bar, è la stessa lingua che usate al bar, il sacro non parla la lingua dell’uomo, il sacro parla un’altra lingua, deve fare dei canti comprensibili perché solo così si entra in contatto con il totalmente altro. Se io parlo italiano magari rivolto al popolo, parlo come faccio questa conferenza e non so a cosa si distingua da una messa al di la del fatto che qui non si trasforma il pane e il vino. Il sacro è tutt’altro, non si entra in confidenza, non si parla in italiano, non si dicono le cose con la lingua con cui si trattano le cose normali, questa forma liturgica parte dal concilio Vaticano II. Non sono cristiano e non mi schiero da nessuna parte, ma certamente c’è stato uno smarrimento del sacro, abbiamo perso il canto che è dimensione sacrale, abbiamo perso la parola straniera e quindi non abbiamo più niente di chi parla un’altra lingua. I riferimenti qui li lascio fare a voi.

Abbiamo perso quella dimensione per cui mi trovo di fronte all’incomprensibile con cui ho a che fare, esattamente come mi trovo di fronte all’incomprensibile quando mi misuro con la mia follia a me stesso ignota e però sconvolgente. Queste dimensioni le abbiamo perse tutte. Succede che vedo più i riti collettivi di contenimento della dimensione sacrale che ci abita, ricorriamo a quelle forme di religione come la new age, dei movimenti apocalittici, la droga, l’alcol, il tentativo disperato di tenere a bada la follia che ci abita. Forma degradata sono anche le palestre.

Le religioni non fanno più il lavoro loro che è quello di contenere il sacro e di consentirne l’accesso graduale, quindi ciascuno deve vedersela da solo, ma le spalle individuali sono insufficienti a reggere la fortezza del sacro, l’individuo non ce la fa da solo a reggerne la sua fortezza e allora psicofarmaci a go-go. Il 57% dei professori italiani usa antidepressivi, sapete che è previsto che per il 2020 noi avremo una mortalità da suicidi giovanili 1 su 5, queste sono le previsioni della organizzazione mondiale della sanità.
Questa dimensione disperante per cui non si hanno più i connotati della vita, perché a decidere la razionalità non ti fornisce nessun senso, la pulsione sacrale e cioè la follia che hai dentro che è anche la voglia di esprimerti in questi grandi scenari della sacralità non più custodirti dalla religione. Vi hanno lasciato tutti orfani e ciascuno si va a cercare la propria religione privata. Se non la trova si fa il suo bel sistema di ossessioni e di pratiche personali nel tentativo disperato di contenere, arginare, relegare le religioni e la potenza del sacro che ci abita.

Dal sacro viene la nostra vita, il sacro è generativo, dal sacro viene la creatività, non si idea nulla se non a partire dalle follie che abbiamo dentro. La follia deve essere condizionata dalle regole della ragione e dalle discipline, ci vuole questo doppio lavoro nell’uomo e la fatica nel vivere è questa: attingere al sacro e disciplinarlo immediatamente. […]

il dolore dicono i greci è una dimensione ineliminabile dell’esistenza; per i cristiani, invece, è il frutto di una colpa che poi diventa una caparra per la salvezza, quindi bisogna amare il dolore. Per i greci il dolore è da sopportare con dignità se sei uomo, non è frutto della colpa, non è promessa di una redenzione e quindi lo reggi il dolore. Il cristianesimo invece, visualizzando il dolore come effetto di una colpa e come caparra di redenzione lo cerca, lo ama, la religione cristiana è la religione della sofferenza non della forza, la forza di reggere come fa il greco. La filosofia è nata per insegnare all’uomo a reggere il dolore e a cercare la gioia, perché anche la gioia non è una cosa che dobbiamo attendere dal cielo è qualcosa che dobbiamo produrre noi.

L’uomo è tragico perché è mortale, ma nel tempo di vita che gli è dato si produca nel massimo della gioia e deve prodursi reggendo il dolore. […]

Umberto Galimberti,
Intervento al Festival di filosofia di Sassuolo,
18 settembre 2005

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