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Fuga dalla libertà, Erich Fromm, 1941

La libertà dell’uomo – ovvero l’espressione più ampia possibile di tutte le facoltà umane – fino al Medioevo era limitata da ostacoli esterni (Stato Assoluto, Chiesa).
Nel mondo moderno, sancita formalmente dalle Costituzioni di tutte le Democrazie che sono nate man mano che si sviluppa il Capitalismo, la libertà viene invece minacciata e ostacolata da limiti e pressioni che sono tutti interni all’uomo.

Non perché la libertà dell’uomo sia impossibile da realizzare, ma perché il sistema in cui viviamo – capitalismo avanzato dentro democrazia formale – è strutturalmente anti-umano.

Cioè: si fonda su basi che non tengono conto dello sviluppo della capacità umane, che vengono utilizzate tutte per qualcosa di extra-umano, come l’Accumulo di Capitale e l’Autogenesi del Sistema.

Quindi, in linea teorica, più siamo integrati nella società e più rischiamo di perdere di vista la nostra umanità.

I ricchi capitalisti, gli uomini di potere, si dice in giro, sono tutti dei grandi nevrotici.

Conoscere la Genealogia

Per capire il mondo in cui viviamo non possiamo prescindere dalla sua genealogia, dalla sua storia.

Il cosiddetto “uomo moderno”, rispetto all’uomo del Medioevo e dell’Antichità, è principalmente Uomo Individuo. E l’individualismo è stato prodotto dalla Modernità.

Nel Medioevo, per esempio, l’uomo faceva parte di corporazioni, ceti sociali, classi e gruppi da cui apparteneva fin dalla nascita. Non c’era possibilità di cambiare la propria condizione, con le proprie forze. La Libertà – come la intendiamo noi – era un concetto sconosciuto. Il sistema era sorretto dalle Autorità Esterne – Stato e Chiesa per esempio – che limitavano la libertà personale e curavano l’equilibrio della società.

Fromm individua come punto di svolta – Tra Mondo Antico e Mondo Moderno – l’etica sviluppata dal Cristianesimo Protestante di Lutero e Calvino.

Protestantesimo e Capitalismo

Sedicesimo secolo. Il mondo sta cambiando. Il commercio – finora  attività per ebrei e altri emarginati – diventa man mano più importante. L’economia si fa più dinamica. Il denaro è uno strumento di scambio fenomenale e viene utilizzato sempre più spesso. Basta proprietari terrieri, basta clero e nobili che campano di rendita, hanno fatto il loro tempo. Con la scoperta dell’America e le prime innovazioni tecnologiche, spuntano nuovi spazi in cui fare affari. Si arricchiscono persone, se ne impoveriscono altre, si creano nuovi ceti sociali. Tutto sembra in movimento. Il mondo medievale – che sembrava immutabile – non regge il colpo. È destinato a crollare.

Ogni crollo provoca le sue vittime. Ogni cambiamento provoca angoscia, paura, ansia.

Le dottrine protestanti di Lutero e Calvino, in aperto contrasto con le gerarchie ecclesiastiche di Roma dal punto di vista politico e teologico, si fanno portavoce della voglia di cambiamento e di libertà diffusa tra il popolo e i ceti più dinamici ma – annota Fromm – esprimono anche il disagio della “classe media” nei confronti di questo mondo che sta cambiando così velocemente ed in cui è difficile orientarsi, in cui le vecchie regole sociali non valgono più e l’uomo si trova solo, confuso e sperduto davanti al Grande Rivolgimento Storico.

Lutero e Calvino, a livello strettamente teologico, sembrano dare forma a una condizione psicologica e sociale carica di fermenti ma anche di angoscia, paura, ansia.

Individualismo e nichilismo
intrecciati fin dall’inizio come gemelli siamesi

Per Lutero e Calvino il rapporto tra Uomo e Dio è individuale.

Non c’è più il Clero che fa da mediatore tra Dio e L’uomo, che si sobbarca lo sforzo e la responsabilità del rapporto con Dio.
Il singolo uomo deve confrontarsi personalmente con Dio.

L’individualismo, in campo religioso, nasce così.

Uno dei tratti distintivi di Luteranesimo e Calvinismo, però, è l’assoluta insignificanza dell’uomo rispetto a Dio. E il suo dovere è umiliarsi, annullarsi.

Ogni suo pensiero, parola, azione, non vale niente davanti all’immensità di Dio.

Dio ha già fissato i predestinati al Paradiso e all’Inferno, prima della loro nascita.  L’uomo può fare qualunque cosa, durante la sua vita, ma non cambierà mai il suo destino.

La volontà di Dio è imperscrutabile. E l’uomo deve solo accettarla. E avere fede. Fede cieca, perchè i suoi occhi, i suoi sensi, il suo intelletto, non sono niente che abbia valore davanti a Dio.

L’uomo è niente, per Lutero e Calvino, e la sua vita serve soltanto per adorare Dio.

Individualismo e nichilismo, quindi, nascono intrecciati, come gemelli siamesi.

Iperattività e tenersi-sempre-impegnati,
più si è soli e disperati e più si è “attivi”

L’uomo è niente, e Dio ha già stabilito tutto.
L’uomo è niente ed è messo davanti a Dio che ha già stabilito tutto.
L’uomo è niente. Ed è da solo.

Il senso di nullità e l’isolamento provocano angoscia, paura, ansia.

Qual è stato l’effetto?
La rassegnazione fatalistica? L’accidia pessimista? Tutt’altro.

Come afferma Max Weber, questa nuova condizione umana fissata dal protestantesimo luterano e calvinista ha provocato un’iperattività e una frenesia operativa che ha contribuito allo sviluppo del capitalismo, basato appunto sull’iniziativa privata, sull’egoismo e sugli sforzi e sacrifici del singolo.

Tutto è stabilito da Dio, l’uomo è una nullità, e quindi diamoci tutti da fare. Teniamoci impegnati tutto il tempo per non pensare alla nostra condizione umana.
Diamoci da fare, impegniamoci dentro questo mercato e questo capitalismo che sta nascendo ora.
Se avremo successo, fama e fortuna, forse è un segno che il nostro Destino è buono.
Se non avremo successo, allora vorrà dire che siamo destinati all’Inferno.

Che abbiamo da perdere? Almeno occupiamo in questo modo questa vita miserabile. Almeno così non pensiamo alla nostra lancinante condizione umana. Che abbiamo da perdere?

L’umanità – che non vale niente – si sacrifica per l’inumanità

Ecco un paradosso della Storia. Uno dei tanti.

Mentre la “mondana” Chiesa Apostolica Romana ha incentivato il disimpegno e la pigrizia, rappresentando la cifra del Medioevo, epoca stazionaria e conservatrice, il Luteranesimo e il Calvinismo – dottrine “ascetiche” e “integraliste” – hanno incentivato il superlavoro, l’iperattività nevrotica e l’importanza dei successi mondani anche per “motivazioni religiose”, rappresentando lo “spirito” del neonato capitalismo e della predominanza delle logiche di mercato.

Se non ci fossero state queste dottrine religiose, che hanno coinvolto tanti strati della popolazione ma soprattutto la numerosissima “classe media”, il capitalismo non avrebbe avuto la forza propulsiva che l’ha condotto a dominare il mondo.

E, come scrive Fromm, Luteranesimo e Calvinismo sono state – involontariamente – una sorta di preparazione psicologica dell’uomo moderno al capitalismo avanzato del ventesimo secolo e (ora si può dire) del terzo millennio.

Hanno creato il culto del “lavoro”, infatti. Il mito del “successo mondano” e della “popolarità” come balsamo contro la propria nullità umana.

Hanno prodotto questo atteggiamento di “ossessione” e di “senso del dovere” a favore di enti extraumani, come – di volta in volta – “Dio”, “Il Mercato”, “Il lavoro”, etc.

La propria umanità non vale niente, meglio “spenderla” tutta per qualcosa di più grande e giusto di noi. Che è grande, ne abbiamo la prova. Che è giusto, no. Ma che importa? Chi siamo noi per giudicare? Bisogna avere Fede, e mettersi al lavoro.

Tutte le energie dell’uomo, così, sono impegnate per questi enti extraumani. Tutti i pensieri, le parole, le azioni, sono influenzati da questa “ossessione” e “senso del dovere” che agiscono come pressioni e imposizioni interne, interiorizzate.

Scrive Fromm: Nel medioevo c’era lo Stato e la Chiesa, a limitare la libertà umana. Ora c’è la Coscienza.

Dio o Mercato fa lo stesso,
siamo sempre Nullità che devono Credere e Umiliarsi

Capitalismo avanzato.

Monopoli, oligopoli, multinazionali. Tutto il sistema della grande azienda, con i “capi” che divengono entità astratte, e i lavoratori, i dirigenti, i quadri e la manovalanza che divengono soltanto cifre, ingranaggi di un gigantesco meccanismo che tu – misero piccolo lavoratore insulso, nullità il cui unico dovere è umiliarsi e credere ciecamente – non puoi mai arrivare a comprendere.

Questo mondo così gigantesco, ciclopico, spersonalizzato, alienato. Questo Mercato che nessuno capisce, ma che ci contiene tutti ed entro cui viviamo tutti le nostre vite. Disumanità fatta sistema economico.

Mettiamoci pure – ora, nel 2013 – la finanziarizzazione dell’economia, le banche e la Borsa, tutto che diventa ancora più virtuale e irreale, e sempre più complicato e incomprensibile, ed ecco che il quadro è compiuto.

La sensazione dell’uomo contemporaneo davanti al Mercato, al Mercato del Lavoro, al capitalismo finanziario, la grande azienda e la globalizzazione, è la stessa provata dall’uomo luterano e calvinista davanti a Dio.

L’ansia, la disperazione, l’irrazionalità, l’insignificanza e il senso di isolamento è lo stesso.

Abbiamo radicati, inoltre, dopo cinquecento anni di capitalismo ed etica protestante, una gigantesca “Coscienza” che limita la nostra libertà e ci rende schiavi di questa “ossessione” e “senso del dovere” che – ricordiamolo – deriva dalla concezione dell’uomo come nullità.

Umanità Sado Maso

L’atteggiamento rispetto al Capitalismo e rispetto al Dio protestante, scrive Fromm, va spiegato con i concetti di sadismo e masochismo, in tutte le sue varianti.

Questi non sono altro che “meccanismi di fuga” dal senso di insignificanza, impotenza e isolamento dell’uomo moderno, caricato da un dovere-essere-individuo che non riesce a sopportare, incapace di portare sulle proprie spalle tutto il peso della responsabilità di essere individuo libero, costretto a scegliere.

Ricordiamo inoltre che la “fuga” non è mai razionale, ma irrazionale. Non è conscia, ma inconscia. Siamo nel campo delle nevrosi. Non si parla mai di “motivi”, quelli afferiscono ad un contesto razionale. Qui si va per paradossi e opposizioni. Spesso una fenomeno è un segnale dell’esistenza del suo contrario.

Sadismo e masochismo sono due meccanismi di fuga dall’ “io individuale”. Sono tentativi di “disfarsi del proprio io”. Perdersi.

In entrambi i casi si cerca un rapporto di “simbiosi” con l’Altro, un “legame” che fa perdere la propria “integrità individuale”.

Questo è palese per il masochista. Nella sua volontà a farsi dominare, si nota tutto lo sforzo per non-essere-più-individuo, per lasciare ad un’entità “altra” – persona, istituzione, autorità, ideale – tutta la responsabilità dello scegliere, del fare, del pensare.

Per il sadico è la stessa cosa, anche se passa per percorsi diversi. La “volontà di dominio” dell’Altro – scrive Fromm – denota anch’essa una tensione verso un legame simbiotico, una ricerca ossessiva di conferme, e deriva anch’essa dall’ansia, dal senso di impotenza, insignificanza e isolamento.

Il vero potere, dice Fromm, è “capacità”. Il potere non ha bisogno di conferme, non ha bisogno di dominare l’Altro per avere queste conferme. La volontà di dominio non è altro che una conseguenza di una debolezza radicata. È la “perversione della capacità”.

Democrazia o totalitarismo fa lo stesso,
siamo sempre alienati e irrazionali 

A livello collettivo, i “meccanismi di fuga dalla libertà” – di natura sadomasochistica – sono l’assoggettamento ad un’autorità esterna (nel caso del fascismo per esempio) e il conformismo ossessivo (nel caso della democrazia occidentale).

Si fugge dalla libertà, e si diventa automi, in altre parole, sia negli stati totalitari sia negli stati democratici.

Entrambi i meccanismi di fuga non sono altro che nevrosi collettive. E sono proprie dell’uomo che non sa affrontare la libertà, che non riesce – cioè – a vivere in modo da sviluppare liberamente tutte le proprie facoltà umane: sensuali, emotive e mentali.

Fascismo e capitalismo alienante, è bene ricordare, sono stati resi possibili da sentimenti e disposizioni individuali e collettivi, moti psicologici all’interno delle singole persone.
La colpa non è di qualche dittatore o uomo di potere, di qualche singolo pazzo o banda di criminali. Loro sfruttano semplicemente materiale già esistente nell’inconscio collettivo.

Siamo tutti complici, nel nostro intimo, di queste catastrofi umanitarie.

Il problema è che, visto che il sistema in cui viviamo si è sviluppato grazie a queste dinamiche nevrotiche, questa alienazione interiore può produrre accettazione e integrazione sociale, successo, popolarità.
In questo modo l’alienazione può diventare istituzione, e ritrovare l’umanità – a livello individuale e collettivo – diventa sempre più difficile.

Ma – viene naturale chiedersi – a cosa serve la mia umanità, se poi non riesco a integrarmi? Se sono un emarginato?
Non è meglio forse “spendermi” al meglio, “vendermi” del tutto, “essere” così come vuole il Mercato?
Chi sono io, per giudicare il Mercato? Che diritti ho? Io sono solo un piccolo miserabile uomo, una nullità insignificante il cui dovere è solo umiliarsi davanti al Mercato e credere ciecamente il Lui.
Ecco il punto. Umiliarsi e Credere.
Se voglio fare successo, devo mettermi bene in testa queste due parole.
D’altronde, il mio Individualismo – come nel Protestantesimo, ma senza Dio – il mio individualismo è solo un riflesso della mio essere Nullità.
La Fede ci vuole, per fare strada nel Mercato, nel Capitalismo Avanzato.
Ci vuole Fede, e basta.
Meglio lasciar perdere i miei sensi e il mio intelletto. Non valgono niente davanti al Mercato. Io stesso non sono niente davanti all’Enormità del Mercato.

BRANI DA “FUGA DALLA LIBERTA’”

EMOZIONI E CIVILTA’

Al centro del suo sistema una di queste soppressioni: cioè la soppressione della sessualità.
Benché io creda che lo scoraggiamento del piacere sessuale non sia l’unica importante soppressione di reazioni spontanee, ma solo una tra le tante, è certo che la sua importanza non va sottovalutata. I suoi effetti sono evidenti nei casi di 
inibizioni sessuali, ed anche in quelli in cui la sessualità assume un carattere ossessivo e viene consumata come un liquore o una droga, che non ha alcun gusto particolare, ma consente di dimenticare se stessi.
A prescindere da questo o quell’altro particolare effetto, la soppressione dei desideri sessualia causa della loro intensità, non solo ha ripercussioni nella sfera sessuale, ma indebolisce anche il coraggio della persona di esprimersi spontaneamente in tutte le altr
sfere.
Nella nostra società le emozioni in generale vengono scoraggiate. Benché senza dubbio il pensiero creativo – come ogni altra attività creativa – sia inseparabilmente legato ad emozioni, è diventato un ideale pensare e vivere senza emozioni.
Essere «emotivo» è diventato sinonimo di instabile e squilibrato. Nell’accettare questa regola, l’individuo si è molto indebolito; il suo pensiero si è impoverito e appiattito.
D’altro canto, le emozioni, non potendo essere completamente eliminate, debbono avere un’esistenza totalmente separata dall’aspetto intellettuale della personalità; il risultato è il sentimentalismo a buon mercato e insincero con cui i film e le canzonette nutrono milioni di consumatori emotivamente affamati.

NOI E LA MORTE

C’è un’emozione vietata su cui vorrei particolarmente soffermarmi, perché la sua soppressione incide profondamente nelle radici della personalità: il senso della tragedia. Come abbiamo visto in un altro capitolo, la coscienza della morte e dell’aspetto tragico della vita, vaga o chiara che sia, è una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo. Ogni civiltà ha un suo modo di affrontare il problema della morte. Nelle società in cui il processo di individuazione è ancora all’inizio, la fine dell’esistenza individuale non è un gran problema, poiché la stessa esperienza dell’esistenza individuale è meno sviluppata. La morte non è ancora concepita come fondamentalmente diversa dalla vita. Le civiltà in cui troviamo uno sviluppo più alto dell’individuazione hanno trattato la morte secondo la loro struttura sociale e psicologica.
 I greci mettevano tutto l’accento sulla vita e rappresentavano la morte come una vaga e triste continuazione della vita.
 Gli egizianifondavano le loro speranze sulla fede nell’indistruttibilità del corpo umano, per lo meno del corpo di coloro il cui potere durante la vita era indistruttibile.
 Gli ebrei ammettevano il fatto della morte realisticamente, e riuscivano a conciliarsi con l’idea della distruzione della vita individuale grazie alla visione di uno stato di felicità e di giustizia che sarebbe stato alla fine raggiunto dall’umanità in questo mondo.
 Il cristianesimo ha reso la morte irreale, e ha cercato di confortare l’individuo infelice con le promesse di una vita oltretomba.
 La nostra epoca si limita a negare la morte, e con essa un aspetto fondamentale della vita. Invece di lasciare che la coscienza della morte e del dolore diventino uno dei più forti incentivi alla vita -la base della solidarietà umana e un’esperienza senza la quale la gioia e l’entusiasmo mancano di intensità e di profondità – l’individuo viene costretto a reprimerla. Ma, come sempre succede nella repressione, gli elementi repressi non cessano di esistere per il solo fatto di essere stati eliminati dalla vista. 
Così la paura della morte vive tra noi un’esistenza illegittima.Resta viva nonostante il tentativo di negarla, ma la repressione la rende sterile.
E’ una delle fonti della piattezza di altre esperienze, dell’inquietudine che pervade la vita, e può spiegare, direi, la sproporzionata somma di denaro che questa nazione paga per i funerali.

BAMBINI

E’ importante rendersi conto di quanto la nostra civiltà favorisca questa 
tendenza al conformismo (…). La soppressione dei sentimenti spontanei, e onseguentemente dello sviluppo di un’individualità genuina, comincia prestissimo, si può dire con la primissima educazione del bambino. Con ciò non si vuole dire che l’educazione debba portare inevitabilmente alla soppressione della spontaneità, dato che il vero fine dell’educazione è di promuovere l’indipendenza interiore e l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità.
Le restrizioni che una educazione di questo tipo può dover imporre al bambino che cresce sono soltanto misure transitorie, che in realtà appoggiano il processo di sviluppo e di espansione.

Nella nostra civiltà, tuttavia, l’educazione troppo spesso produce l’eliminazione della spontaneità e la sostituzione agli atti psichici originali di sentimenti, pensieri e desideri sovraimpressi. (Per originale non intendo, ripeto, che un’idea non sia stata pensata prima da qualcun altro, ma che abbia origine nell’individuo, che sia il frutto della sua attività e che in questo senso sia il suo pensiero).
Volendo scegliere un esempio un po’ arbitrariamente, una delle prime soppressioni di sentimenti è quella che riguarda l’ostilità e l’antipatia. La maggior parte dei bambini prova sentimenti di ostilità e di ribellione per effetto dei loro conflitti con un mondo circostante, che tende a bloccare la loro espansività e a cui, come parte più debole, debbono di solito arrendersi. Uno dei fini essenziali del processo educativo è quello di eliminare questa reazione antagonistica. I metodi sono vari; essi vanno dalle minacce e dalle punizioni, che spaventano i bambini, ai metodi più sottili dell’allettamento e delle «spiegazioni», che confondono i bambini e li inducono a rinunciare alla loro ostilità.

Il bambino comincia col rinunciare all’espressione del suo sentimento e alla fine rinuncia al sentimento stesso. Oltre a questo, gli viene insegnato a sopprimere la consapevolezza dell’ostilità e dell’insincerità degli altri; talvolta non è tanto facile, dato che i bambini hanno la capacità di notare negli altri questi tratti negativi senza farsi tanto facilmente ingannare, come gli adulti, dalle parole
Sono ancora capaci di trovare antipatica una persona «per nessuna buona ragione»: tranne l’ottima ragione che essi avvertono l’ostilità o l’insincerità che emana da questa persona. Questa reazione ben presto viene scoraggiata; non occorre molto tempo perché il bambino raggiunga la «maturità» dell’adulto medio, e perda la capacità di distinguere tra una persona per bene e un mascalzone, qualora quest’ultimo non si sia rivelato con qualche atto palese. D’altro canto, si insegna ben presto al bambino ad avere sentimenti che non sono affatto «suoi»; in particolare gli viene insegnato a trovar simpatiche le persone, ad essere acriticamente amabile con loro, e
 a sorridere.
Dove non è arrivata l’educazione, arriva di solito più tardi la pressione sociale. 
Se uno non sorride, si dice che non ha una «personalità gradevole»; e bisogna avere una personalità gradevole se si vuol vendere i propri servizi, non importa se come cameriera, come commesso, o come medico. Solo quelli che stanno al fondo della piramide sociale -quelli che non vendono altro che la loro fatica fisica – e coloro che stanno al vertice, non hanno bisogno di essere particolarmente «gradevoli».
La cordialità, il buon umore e tutto quello che si ritiene che un sorriso esprima, diventano reazioni automatiche che si accendono o si spengono come un interruttore elettrico. Naturalmente in molti casi la persona si rende conto di star facendo nient’altro che un gesto; nella maggior parte dei casi, però, si perde questa consapevolezza e di conseguenza la capacità di distinguere tra lo pseudosentimento e la cordialità spontanea. Non è soltanto l’ostilità che viene direttamente repressa, né solo la cordialità che viene uccisa sovrapponendole la sua contraffazione.
Sin dall’inizio dell’educazione il pensiero originale viene scoraggiato, e nei cervelli degli individui vengono inculcati pensieri già bell’e confezionati. E’ abbastanza facile osservare come questo venga ottenuto nel caso dei bambini piccoli. Essi sono pieni di curiosità per il mondo, vogliono afferrarlo fisicamente e intellettualmente. Vogliono sapere la verità, dato che 
è il modo più sicuro per orientarsi in un mondo strano e potente. Invece non vengono presi sul serio, e poco importa se questo atteggiamento assuma la forma dell’aperta mancanza di rispetto oppure quella della velata degnazione che si usa verso tutti quelli che non hanno potere (come i bambini, i vecchi o gli ammalati).
Benché già per se stesso questo trattamento scoraggi notevolmente il pensiero indipendente, c’è uno svantaggio anche maggiore, l’insincerità spesso non intenzionale -che è tipica del comportamento dell’adulto medio verso il bambino. Questa insincerità consiste almeno in parte nell’immagine fittizia del mondo che si dà al bambino.

CHI SIAMO, DOVE SIAMO, COSA VOGLIAMO

I giornali ci informano sui banali pensieri o sulle preferenze gastronomiche di una debuttante con lo stesso spazio e con la stessa serietà che dedicano al resoconto di avvenimenti di importanza scientifica o artistica. A causa di tutto ciò cessiamo di avere dei veri rapporti con quel che sentiamo. Non ci emozioniamo più, i nostri sentimenti e il nostro giudizio critico si bloccano, e alla fine il nostro atteggiamento di fronte agli avvenimenti del mondo assume un carattere di piattezza e indifferenza.
 In nome della «libertà» la vita perde l’ossatura, finisce per esser composta di tanti pezzetti, ognuno separato dagli altri, e resta priva di senso nel suo insieme. L’individuo vien lasciato solo con questi pezzi, come un bambino con un gioco ad incastri; la differenza, però, è che il bambino sa cos’è una casa, e perciò è in grado di riconoscere le parti della casa nei minuscoli pezzi con cui sta giocando, mentre l’adulto non afferra il significato del «tutto», di cui gli capitano in mano i pezzi. E’ confuso e spaventato, e continua a fissare i suoi pezzetti privi di significato.
 Quel che si è detto a proposito della mancanza di «originalità» nel sentimento e nel pensiero vale anche per la volontà.
In questo caso è più difficile rendersene conto; l’uomo moderno, semmai, pare avere sin troppi desideri, e il suo solo problema sembra quello che, pur sapendo ciò che vuole, non può averlo. 
Tutte le nostre energie vengono spese allo scopo di ottenere quello che desideriamo, e la maggior parte degli individui non mettono mai in discussione il presupposto di quest’attività, il sapere, cioè, quel che davvero vogliono. Non si soffermano mai a riflettere se i fini che stanno perseguendo siano proprio quelli che vogliono loro: nella scuola vogliono avere buoni voti, da adulti vogliono avere sempre più successo, guadagnare più denaro, avere più prestigio, comprare un’automobile più bella, andare in giro, e così via.
Ma se si fermano per un momento a pensare in mezzo a tutta questa frenetica attività, può sorgergli alla mente questa domanda: «Se ottengo questo nuovo posto, se prendo questa automobile più bella, se riesco a fare questo viaggio, che cosa succede? A che serve tutto questo? Sono veramente io che voglio queste cose? Non sto per caso inseguendo una meta che dovrebbe farmi felice e che mi sfugge non appena la raggiungo?». Queste domande, quando sorgono, fanno paura, perché mettono in dubbio la base stessa su cui poggia l’intera attività dell’individuo: il fatto di sapere che cosa vuole.

Perciò le persone tendono a liberarsi il più presto possibile di questi pensieri che turbano. Credono che queste domande tormentose siano sorte perché si sentivano stanche o depresse: e continuano a perseguire i fini che ritengono propri. Ma tutto questo rivela una vaga intuizione della verità: la verità che l’uomo moderno vive nell’illusione di sapere ciò che vuole, mentre in realtà vuole quel che ci si aspetta che voglia.

PERDITA D’IDENTITA’ E CONFORMISMO

Essendoci liberati dalle vecchie forme palesi di autorità, non ci rendiamo conto di esser caduti preda di un nuovo genere di autorità. 
Siamo diventati automi che vivono nell’illusione di essere individui autonomi. Questa illusione aiuta l’individuo a restare inconsapevole della propria insicurezza, ma questo è tutto l’aiuto che può dare una simile illusione. Nella sostanza l’io dell’individuo è indebolito, sicché si sente impotente ed estremamente insicuro. Vive in un mondo con il quale non è più in autentico rapporto, in cui tutti e tutto sono ormai strumentalizzati, in cui è diventato una parte della macchina che le sue mani hanno costruito. Pensa, sente e vuole quel che crede di esser tenuto a pensare, sentire e volere; e proprio in questo processo perde il suo io, sul quale deve esser costruita tutta l’autentica sicurezza di un individuo libero. La perdita dell’io ha aumentato la necessità di conformarsi, perché produce un grave dubbio circa la propria identità. Se io non sono altro che ciò che credo di essere tenuto ad essere, chi sono «io»? Abbiamo visto come il dubbio sul proprio essere sia cominciato con il crollo dell’ordine medioevale, nel quale l’individuo aveva occupato un posto indiscusso in un ordine fisso. L’identità dell’individuo è uno dei massimi problemi della filosofia moderna a partire da Cartesio. Oggi diamo per scontato di essere «noi», tuttavia il dubbio su noi stessi esiste ancora, o addirittura è aumentato. Nei suoi drammi Pirandello ha espresso efficacemente questo sentimento dell’uomo moderno. Egli parte dalla domanda: chi sono io? Quale prova ho della mia identità, a parte la continuità del mio essere fisico? La sua risposta non è, come in Cartesio, l’affermazione dell’io individuale, ma la sua negazione: non ho alcuna identità, non c’è alcun io tranne quello che è il riflesso di quel che gli altri pretendono che io sia: io sono «come tu mi vuoi».

Perciò questa perdita dell’identità rende ancor più imperativo il bisogno di conformarsi; il che vuol dire che si può essere sicuri di se stessi solo se non si deludono le aspettative degli altri. Se non siamo adeguati a questa immagine, non solo rischiamo la disapprovazione e un maggiore isolamento, ma rischiamo di perdere l’identità della nostra personalità, il che metterebbe in pericolo il nostro equilibrio mentale. Dal conformarsi alle aspettative degli altri, dal non essere diversi, questi dubbi sulla propria identità vengono messi a tacere; e così si conquista una certa sicurezza.

Ma il prezzo che si paga è alto. Rinunciare alla spontaneità e all’individualità significa soffocare la vita. Dal punto di vista psicologico l’automa, pur essendo vivo biologicamente, è morto come sentimenti e pensieri. Mentre fa i gesti del vivere, la sua vita gli scorre tra le mani come sabbia. Dietro alla facciata della soddisfazione e dell’ottimismo, l’uomo moderno è profondamente infelice; anzi, è sull’orlo della disperazione.

Si aggrappa disperatamente all’idea dell’individualità; vuole essere «diverso», e la sua maggior lode è dire che qualcosa «è diverso». Ci vien segnalato il nome dell’impiegato delle ferrovie dal quale acquistiamo i biglietti; le borsette, le carte da gioco e le radio portatili vengono «personalizzate» stampandoci su le iniziali del proprietario. Tutto ciò sta ad indicare la fame di «diversità», e tuttavia questi sono quasi gli ultimi segni rimasti dell’individualità.

L’uomo moderno è affamato di vita.
 Ma poiché, essendo un automa, non riesce a vivere la vita come attività spontanea, prende come suo surrogato qualsiasi sorta di emozione e brivido: il brivido del bere, degli sport, del vivere vicariamente le emozioni di personaggi irreali dello schermo.  Ma allora che cosa significa la libertà per l’uomo moderno? E’ diventato libero dai vincoli esterni, che gli impedirebbero di fare e di pensare come crede. Vorrebbe esser libero di agire secondo la sua volontà, se sapesse che cosa vuole, pensa e sente; ma non lo sa. Si conforma ad autorità anonime, e adotta una personalità che non è la sua. E più fa così, più impotente si sente, e più è costretto a conformarsi.
Sotto la vernice dell’ottimismo e dell’intraprendenza, l’uomo moderno è sopraffatto da un profondo sentimento di impotenza, che lo porta a guardare le catastrofi incombenti come se fosse paralizzato. Osservate superficialmente, le persone sembrano funzionare abbastanza bene nella vita economica e sociale; tuttavia sarebbe pericoloso trascurare la profonda infelicità che sta dietro questa consolante vernice. Se la vita perde il suo significato perché non viene vissuta, l’uomo diventa disperato. Gli individui non muoiono silenziosamente di fame fisica; e non muoiono silenziosamente nemmeno di fame psichica. Se consideriamo solo i bisogni economici della persona «normale», se non individuiamo la sofferenza inconscia della persona automatizzata, allora non riusciamo a comprendere il pericolo che minaccia la base umana della nostra civiltà: la disposizione ad accettare qualsiasi ideologia e qualsiasi capo, purché prometta emozioni e offra una struttura politica e dei simboli che apparentemente diano significato e ordine alla vita dell’individuo. La disperazione dell’automa umano è un terreno fertile per le mire politiche del fascismo.

SPONTANEITA’

Noi riteniamo che la realizzazione dell’io si compia non solo per mezzo di un atto intellettuale, ma anche mediante la realizzazione della personalità totale dell’uomo, per effetto dell’espressione attiva delle sue possibilità emotive e intellettuali.
Queste possibilità sono presenti in tutti; diventano reali solo nella misura in cui vengono espresse. In altre parole, “la libertà positiva consiste nell’attività spontanea della personalità totale”. Qui ci troviamo di fronte ad uno dei problemi più difficili della psicologia: il problema della spontaneità.
Benché la spontaneità sia un fenomeno relativamente raro nella nostra civiltà, non è che ne siamo completamente privi. Per aiutare a comprendere questo punto, vorrei ricordare al lettore alcuni casi in cui tutti vediamo un barlume di spontaneità. In primo luogo, conosciamo individui che sono -o sono stati spontanei, i cui pensieri, sentimenti e atti sono l’espressione di loro stessi e non di un automa. 
Questi individui ci sono familiari per lo più come artisti. Infatti, l’artista può essere definito un individuo in grado di esprimersi spontaneamente.
 Se questa è la definizione dell’artista – Balzac lo definiva proprio in questo modo – allora certi filosofi e scienziati devono anch’essi venir chiamati artisti, mentre altri che passano per tali sono tanto lontani dall’artista quanto un vecchio fotografo può esserlo da un pittore creativo. Ci sono altri individui i quali, pur non avendo la capacità -o forse semplicemente la preparazione -per esprimersi in un mezzo oggettivo come fa l’artista, possiedono la stessa spontaneità. Ma la posizione dell’artista è vulnerabile, perché in realtà si rispetta l’individualità e la spontaneità del solo artista riuscito; se non riesce a vendere la sua arte, egli resta per i suoi contemporanei un eccentrico, un nevrotico. In questo senso l’artista sta in una posizione simile a quella che ha sempre contraddistinto nella storia il rivoluzionario. 
Il rivoluzionario vittorioso è uno statista, il rivoluzionario fallito è un criminale.